LA QUESTIONE SOCIALE NEI ROMANZI STORICI DI ANDREA CAMILLERI

Cocludiamo la pubblicazione dei saggi vincitori. Oggi è la volta del trionfatore della sezione: LA QUESTIONE SOCIALE NEI ROMANZI STORICI DI ANDREA CAMILLERI, il saggio di Rosario Parisi, classificatosi al 1° posto assoluto nella sezione Articolo/Saggio breve.

LA QUESTIONE SOCIALE NEI ROMANZI STORICI DI ANDREA CAMILLERI

Autore Rosario Parisi

L’attenzione per la questione sociale rappresenta uno dei pilastri portanti che reggono la struttura dei romanzi storici di Andrea Camilleri.

Un’esaustiva descrizione del quadro socio-politico e culturale siciliano dei secoli scorsi non può essere portata a compimento senza aver preso in considerazione le condizioni di arretratezza e povertà che in passato contraddistinguevano, purtroppo, la vita di gran parte della popolazione dell’Isola. Un contadino, anche se onesto e lavoratore, poteva non avere la minima esitazione a uccidere un nobile, o un ricco in generale, qualora ciò avesse potuto comportare un importante cambiamento di vita per sé e la sua famiglia.

È quanto avviene, infatti, nelle prime pagine del Re di Girgenti; e tutta la prima parte di tale romanzo sembra trasudare i paradossi derivanti dalla contrapposizione tra contadini affamati e rassegnati alle loro precarie condizioni di vita, e nobili ricchi ma non per questo meno bramosi di nuove ricchezze1.

Nel Re Camilleri intende sottolineare un aspetto della vita contadina del tempo: la mancanza di cultura e di denaro viene egregiamente controbilanciata dalla solidarietà tra tutti coloro i quali condividono tali condizioni di vita.

L’intero romanzo pullula di riferimenti espliciti all’avidità dei ricchi (intendendo per ricchi non solamente i nobili, ma anche i rappresentanti dello Stato e gli uomini di Chiesa, nella fattispecie il vescovo Ballassàro Raina), pronti perfino a mancare alla parola data pur di raggranellare altro denaro2.

Chi vive di stenti, quindi, non ha altra alternativa che ribellarsi a questo sistema. Da qui, allora, la rivolta descritta nel libro3, che rappresenta uno degli episodi più significativi della vita di Zosimo e dei suoi compagni.

Ciò che maggiormente colpisce il lettore è la mentalità che sta alla base di tale rivolta, sintetizzata dalla frase «chi arrobba pi’ mangiari nun fa piccato»4. Si tratta quindi di un modo di pensare e di agire dettato dalla fame, dall’essersi stufati di trovarsi continuamente in «mancanza del bisognivole»5. Ed è un modo di pensare e agire che volentieri sconfina nella primitiva legge “occhio per occhio, dente per dente”: a farne le spese sarà la suora tedesca assassinata6.

Si può vivere in miseria per nascita, ed è il caso dei poveri che popolano l’ambiente del Re di Girgenti;ma lo si può anche diventare, per esempio a causa della mafia, come è chiarito bene, e fin dal paratesto, nella Banda Sacco; in particolare nel risvolto di copertina, firmato da Salvatore Silvano Nigro, e nella nota, a cura dell’autore, posta alla fine del romanzo.

Nigro sottolinea l’assenza dello Stato che non garantisce i Sacco, i quali si danno alla latitanza per necessità, per effetto di questa situazione. Davvero molto significativa la citazione manzoniana che a suo giudizio racchiude il succo della storia: «I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi»7.

Camilleri, invece, si premura di evidenziare come «la mafia non solo ammazza ma, laddove lo Stato è latitante, è anche in grado di condizionare e di stravolgere irreparabilmente la vita delle persone»8.

I Sacco, che avevano faticato non poco nel corso degli ultimi anni dell’Ottocento al fine di progredire economicamente, si vedono dunque costretti dalle circostanze a rinunciare in pochi anni ai loro progetti e alle loro speranze di vita migliore, e a darsi addirittura alla latitanza come conseguenza della disperazione di vivere in un regime di mafia9. Simbolo, il modo di fare dei Sacco, del comportamento a dir poco coraggioso che secondo Camilleri hanno, o meglio dovrebbero avere, tutti i siciliani onesti e lavoratori.

Lo Stato, si è ripetuto più volte poc’anzi. Ma chi e cosa, concretamente, veste i panni di quest’ultimo nell’ormai scombussolata vita di questi “banditi”? Sicuramente la giustizia che non funziona, grazie alla benevolenza dei giudici verso il sistema mafioso10, qualora non si tratti di vera e propria corruzione11.

Ma anche altri avversari “tramano nell’ombra”. Come spesso avviene nelle sue opere, Camilleri pone l’accento su un altro “nemico”, in casacca nera: «Il maresciallo lo talia e non arrispunni. Il fatto è che da squasi un anno in Italia cumanna il fascismo. E ai fascisti di Raffadali non piaci che il socialista Vanni Sacco possa firriare campagne campagne libero e armato»12. Basti pensare anche all’aprioristica volontà di condanna da parte dei giudici, per pura e semplice obbedienza politica13.

Ma anche altri romanzi di Camilleri riflettono lo scoramento per la mancanza di giustizia, intesa quest’ultima, in alcuni casi, anche solo in senso meramente giuridico.

Prendendo in considerazione, per esempio, La mossa del cavallo, lo stesso autore evidenzia esplicitamente tale prospettiva – mettendo in risalto un rovesciamento dei ruoli (in questo caso tra colpevole e testimone14) che tra l’altro rappresenta un tema a lui caro: basti vedere la parte finale della Voce del violino, il quarto romanzo con protagonista il commissario Montalbano15.

In questo caso, al centro della macchinazione che porta al rovesciamento dei ruoli appunto si trovano i compromessi e le connivenze tra i massimi poteri, incluso quello mafioso.

Camilleri mette l’accento sul fatto che, volendo amare al di là di tutto la Sicilia, si finisce per rompersi, metaforicamente, la testa, per dirla come il capitano Bellodi del Giorno della civetta di Leonardo Sciascia16.

Di sicuro, coloro i quali non si romperanno la testa saranno Antonio Spinoso, delegato di Pubblica Sicurezza della Concessione del telefono, e il suo questore Arrigo Monterchi: entrambi, in seguito a un imbroglio perpetrato dal tenente dei Reali Carabinieri Ilario Lanza-Scocca17, vengono ingiustamente puniti con il trasferimento18, ma il destino fa sì che i due si prendano una bella rivincita; le sedi loro assegnate sono infatti vicinissime, e i due lavoreranno ancora insieme19.

Dopo questa piccola ma significativa digressione riguardante i paradossi derivanti dalla mancanza di giustizia, torniamo a parlare della mafia.

Tale argomento, infatti, affiora continuamente dalle pagine camilleriane, e appare lecito porci alcune domande: potremmo infatti chiederci di che tipo è il sistema mafioso descritto da Camilleri, se si tratta di vecchia o nuova mafia, e in che modo l’autore affronta il problema nelle sue opere.

Cominciamo a rispondere all’ultima di tali domande, rifacendoci a quanto dichiarato da Nino Borsellino nella sua introduzionea Storie di Montalbano:

Più che operare come una società parallela e ferocemente attiva quale si manifesta nell’opera di Sciascia, la mafia produce nell’opera di Camilleri effetti criminosi per suggestione, genera un’isteria comica anche quando le conseguenze sono tragiche. […] La mafia è un elemento costitutivo dell’opera di Camilleri anche se è una falsa pista, collabora alla messa in scena del tragediatore e alla commedia dell’identità e dello scambio. […] La strategia investigativa del sostituto procuratore Giovanni Falcone consisteva, a quanto egli stesso affermava, in un esercizio mimetico di riproduzione e insieme di controllo dell’essere mafioso e dell’entità mafiosa che ha preso il nome di Cosa nostra: nella mimesi di quel comportamento, ma soprattutto del pensare e del parlare criminosi. […] Anche la strategia narrativa di Camilleri si origina da questa esperienza mimetica della realtà rievocata o immaginata. In ogni caso acquisita. Insomma, Camilleri come Falcone20.

Per quanto attiene, invece, alle caratteristiche dell’apparato mafioso preso in esame da Camilleri, non sarebbe a mio parere tanto facile condurre un’analisi al riguardo se lo stesso Camilleri, in più occasioni, non si fosse premurato di chiarirci molti aspetti della differenza tra malavita organizzata tradizionale e moderna. Lo fa per esempio nel Cane di terracotta21, ma soprattutto nella Gita a Tindari22e nella Banda Sacco23, nonché, con una molto esauriente ed efficacissima spiegazione, nel Campo del vasaio24.

Ma ovviamente, l’autore critica e prende le distanze sia dal vecchio che dal nuovo sistema mafioso: la mafia, non importa se vecchia o nuova, per lui è semplicemente mafia, tale resterà per sempre, e per questo deve essere da ciascuno di noi combattuta con tutte le forze25.

Ma come, verrebbe spontaneo da chiederci, la si potrebbe combattere se, in molte occasioni, lo Stato diventa suo connivente?

Ho già affrontato ampiamente la questione parlando della Banda Sacco. Ma Camilleri si preoccupa di disseminare indizi che rivelano tale stato di cose anche in altri romanzi di carattere storico (vedi ancora la Concessione).

Ma chi è il più forte? Lo Stato o la mafia? Quale dei due contendenti è in grado di vincere sull’altro?

La partita, a mio giudizio, avrebbe tutte le carte in regola per terminare con un perentorio pareggio.

Riprendiamo in considerazione La mossa del cavallo. In questo caso è l’apparato mafioso ad avere l’ultima parola: le cose nel romanzo si aggiustano a favore del protagonista grazie all’operato di don Cocò Afflitto.

Ma non è affatto scontato che lo Stato non possa apparire un gradino più in alto dell’organismo suo connivente. Il birraio si chiude infatti con la paradossale uccisione del capomafia Emanuele Ferraguto – «meglio noto in provincia e fuori come “don Memè” o più semplicemente “u zu Memè”, zio Memè, soprattutto da chi con lui legami di parentela non aveva, manco lontanissimi»26 – per opera di don Gaetanino Sparma, camperi dell’avvocato onorevole Paolino Fiannaca di Misilmesi27.

Perché don Memè viene ucciso? Ovviamente per uno sgarro nei confronti dell’onorevole28.

Ma, simbolicamente, il romanzo si chiude con quest’uccisione al fine di porre in risalto la maggior forza che lo Stato possiede rispetto al suo alleato. Fiannaca, infatti, dimostra come in questo caso sia lui ad avere l’ultima parola; e fa vedere come si possa permettere di guardare dall’alto verso il basso non solo la gente comune, ma persino un temutissimo “omo di rispetto”.

Le considerazioni finora svolte trovano preciso riscontro anche in altri autori che si sono cimentati nell’affrontare l’argomento. Uno su tutti lo storico Giuseppe Carlo Marino:

[Il quadro nel quale vanno collocate le vite dei padrini] è il quadro storico dei rapporti tra società e politica nella cosiddetta “isola del sole”, centrato, come si è appena detto, sul ruolo decisivo delle forze dominanti. O, forse sarebbe meglio dire, è il quadro di un sistema di poteri senza Stato. Da esso emerge che la classe dirigente siciliana, in passato coincidente con i baroni e con i titolari delle rendite delle proprietà latifondistiche, ha sempre avuto il pieno controllo della società dell’isola rappresentandone, pilotandone e incarnandone rapacemente gli “interessi”. […] Questo significa che, in Sicilia, i veri e incontestati padroni sono sempre stati i notabili siciliani. E, sempre, almeno dagli inizi dell’età moderna fino all’età contemporanea, sono stati dei padroni molto esigenti ed oppressivi nei confronti dei ceti popolari. […] In altri termini, la classe dirigente siciliana […] si è più volte spesa con animosità persino nel promuovere e nel guidare varie espressioni di protesta dal basso contro i cosiddetti dominatori stranieri sistematicamente indicati come gli esclusivi responsabili dell’infelicità e della miseria del popolo29.

Da questa citazione emergono alcune sfumature facilmente riconducibili anche alle opere di Camilleri. Basti pensare al riferimento ai dominatori stranieri, soprattutto nel Re di Girgenti, ma esplicitamente menzionati, questi ultimi, anche nel Birraio30, o alle tradizioni, evidenziate nella Banda Sacco, che imponevano di farsi giustizia da soli31.

Ma non solo: nel suo libro Marino prende in esame, oltre alla piaga rappresentata dalla mafia, anche altri argomenti che ci interessano da vicino, per esempio il brigantaggio.

Marino si sofferma, oltre che sulle caratteristiche di tale fenomeno, sui rapporti indiretti intercorrenti tra l’attività dei briganti e il sistema mafioso; ma anche sui legami che venivano a instaurarsi tra quest’ultimo e i borghesi, i grandi e i piccoli proprietari terrieri, gli affittuari e i contadini:

I briganti, gli esponenti più tipici e diffusi della selvaggia delinquenza dell’epoca, a parte qualche eccezione, di solito non erano minimamente assimilabili ai mafiosi. […] Per quanto fossero o volessero essere dei ribelli, i briganti in Sicilia […] dipendevano dalla rete di complicità e protezioni che riuscivano ad intessere a loro favore sfruttando, oltre che la paura, le diffuse norme consuetudinarie dell’ambiente che imponevano l’omertà. […] Sarebbe stato temerario immaginare di poterli contrastare confidando nell’assai dubbio coraggio di quei quattro gatti di carabinieri che avrebbero dovuto garantire la legalità nel territorio. […] Esistevano pertanto le condizioni che consentivano a mafiosi e ad aspiranti mafiosi di stabilire un proficuo rapporto con le bande dei briganti, imponendosi ai loro occhi come sensibili alleati e soprattutto come elementi capaci di “razionalizzare” l’esercizio della violenza. […] Il rapporto tendeva a perfezionarsi in una complicità32.

La rete delle corrispondenze con quanto traspare dalle pagine di Camilleri è fitta.

Volendo schematizzarla in un elenco ne risulterebbe che:

  • l’eccezione alla selvaggia delinquenza è rappresentata dai fratelli Sacco;
  • torna in mente l’incontro notturno del piccolo Zosimo con il «briganti Salamone, / il tirrore di tutte le pirsone»33 – prete datosi alla macchia dopo aver vendicato l’onore della sorella –, brigante tanto feroce quanto solidale con chi è vittima come lui delle prepotenze dei potenti;
  • quando viene posto l’accento sull’impossibilità di contrastare concretamente il brigantaggio per mezzo dell’assai dubbio coraggio degli esponenti delle forze dell’ordine, affiora alla mente l’impotenza del maresciallo dei carabinieri nei confronti dell’ingiustizia subita dalla famiglia Sacco34;
  • inoltre, e questo è forse il punto più importante della questione, il libro dello storico palermitano comproverebbe la tesi sostenuta da Camilleri, secondo la quale i Sacco non erano briganti nel vero senso della parola: si accennava sopra al fatto che spesso e volentieri mafia e brigantaggio intessevano tra di loro proficui rapporti di alleanza e complicità, ma questo risulta essere tutto il contrario di quanto fecero i Sacco, i quali anzi si erano venuti a trovare nella loro paradossale situazione per essersi con risolutezza schierati contro l’apparato mafioso!

D’altra parte, non si può trascurare la tesi di Pasquale Villari (1826-1917), grande storico e politico napoletano, che in una delle sue Lettere meridionali (1878), considera il brigantaggio alla stregua di una questione agraria e sociale35, e non politica o in qualche modo concernente la cattiva indole dei siciliani. Il brigantaggio, secondo Villari, è «solo la conseguenza dell’odio vicendevole fra oppressi ed oppressori, cioè tra quelli che possiedono ed i nullatenenti, odio tanto più intenso quanto meno progredita è la civiltà»36.

Marino accenna anche ai compromessi tra mafia e politica, di cui si è già ampiamente discusso in queste pagine, e lo fa prendendo come spunto il delitto Notarbartolo, citato da Camilleri nel racconto Meglio lo scuro37.

Inoltre, anche l’autorevole Storia della mafia di Salvatore Lupo affronta le questioni fin qui trattate, in termini sostanzialmente analoghi. Sono, dunque, almeno due i testi di importanti storici contemporanei le cui analisi coincidono con la rappresentazione che Camilleri ci offre.

Quanto al problema delle differenze tra vecchia e nuova mafia, anch’esso trattato da Lupo e Marino, ne troviamo traccia come detto in tre romanzi che hanno per protagonista Montalbano: Il cane di terracotta, La gita a Tindari e Il campo del vasaio.

Ma l’argomento viene affrontato da Camilleri anche nella Banda Sacco, con un’accurata descrizione della vecchia mafia:

Ma c’era la mafia. Eccome, se c’era! Al principio dell’anni vinti del Novecento Raffadali è completamente cumannata dalla mafia che si è in tutto e per tutto sostituita allo Stato. La mafia ha imposto il sò «codice d’onore» che vali certo per chi apparteni alla «onorata società», ma detta macari ai comuni citatini regole di comportamento quotidiano. Pri sempio, per arrisolviri ʼna sciarratina famigliare non ci s’arrivolge cchiù in privato al maresciallo dei carrabineri, come si faciva ʼna vota, ma al capomafia. Il quali addecide a modo sò la soluzione della vertenza e il sò giudizio, ʼna vota pronunziato, è innappellabile. E chi a quella sentenza s’arribbella arrischia squasi sempri la vita, pirchì la parola del capomafia è sacra, è vangelo, non può essiri contradditta o missa in discussioni. E manco si po’ annare dai carrabbineri per denunziari un furto di vestiame o di dinaro. Della facenna abbisogna sempri prima informare il capomafia il quali o addecide d’arrisolviri di pirsona la questione o ti duna lui stisso il pirmisso di annare dai carrabbineri. La mafia trasiva macari nella vita privata dei citatini e spisso proibiva che un matrimonio viniva fatto o che qualichiduno s’accattava un pezzo di terra o rapriva un negozio. Il capomafia ʼnzumma si portava appresso diverse facci: ora s’ammostrava un pater familias bono e accomodante, ora un mediatore accorto e capaci, ora un judice severo, cchiù spisso un boia feroci. Ma resta sempri e comunqui un esattore spietato. Accussì era la vecchia mafia, quella dei feudi e delle campagne, e Raffadali è un paìsi che campa esclusivamente sulle attività agricole38.

Insomma, si potrebbe sostenere che nei romanzi camilleriani di genere storico si assiste a una particolareggiata descrizione, accompagnata il più delle volte da una vera e propria denuncia, dei principali mali che da sempre, purtroppo, affliggono la società siciliana.

E si potrebbe forse rappresentare tale descrizione nata dalla penna di Camilleri immaginando una piramide al cui vertice si troverebbe l’apparato mafioso.

Più in basso noteremmo i fenomeni che costituirebbero la “linfa vitale” di quest’ultimo: vale a dire, soprattutto, i compromessi e le connivenze tra le varie forme di autorità (intendendosi ovviamente, quale “autorità”, anche il potere mafioso), i quali naturalmente sfociano, come si è visto, nella mancanza di giustizia e nello scoramento derivante da tutto ciò39.

Ma, ribadiamo ancora, collegato a doppio filo alla mafia è anche il brigantaggio. Nei romanzi di Camilleri tale fenomeno nasce infatti “dal grembo” dell’associazione mafiosa (vedi La banda Sacco), come anche può essere generato dalla mancanza di giustizia che, a sua volta, risulta essere figlia della prepotenza dei nobili e dei potenti (vedi il caso del brigante Salamone nelle pagine del Re di Girgenti40), categorie sociali al cui polo opposto Camilleri schiera, come sappiamo, i poveri e gli oppressi in generale; anche se, come è stato già analizzato in questa sede, il brigantaggio poteva trovarsi legato alla mafia pure da alleanze e accordi di vera e propria complicità.

E anche l’analfabetismo e la mancanza di cultura, collegati a loro volta con la povertà e l’arretratezza, possono entrare in gioco: si è già esaminato, infatti, il loro ruolo nell’ostacolare il buon funzionamento della giustizia.

Il discorso fin qui svolto si può completare ponendo l’accento su un’altra tematica, che potrebbe anch’essa venire inquadrata nell’ambito della questione sociale, e che rappresenta un altro aspetto costante dei romanzi storici fin qui presi in esame.

Nel corso di queste pagine si è accennato anche al fascismo.

Risulta lampante, in primo luogo, il fatto che Camilleri persegua continuamente la linea di un’accesissima polemica contro il regime fascista, che si basava su una prassi politica intrisa di inganni, vessazioni, prepotenze e violenze.

Basti ricordare, come esempio, la scelta di parlare al lettore in prima persona, nella “quasi premessa”41e nella “quasi conclusione”42di Privo di titolo. Mediante il discorso condotto in prima persona, Camilleri vuol far emergere dalle sue pagine la partecipazione emotiva che lo lega a quanto scritto: egli era presente, ricorda quanto avveniva, e non intende dimenticare niente di ciò che accadde (anche se qualunque attento studioso dell’autore empedoclino riterrebbe assolutamente degno di attenzione un enorme paradosso al riguardo: Camilleri, in gioventù, aveva simpatizzato per il fascismo, anche se, e questo è molto importante, si sentiva intimamente di sinistra43, a tal punto da fondare, nella sua città, una cellula non ufficiale del partito comunista – che dopo appena due mesi dalla sua costituzione venne sostituita dal vero PCI44).

Prenderò in esame in questa sede due dei romanzi storici di Camilleri, vale a dire Privo di titolo e Il nipote del Negus – anche se un cenno al fascismo lo si può trovare pure nella Banda Sacco, nonché in Donne: alludo, in quest’ultimo caso, alla storia dell’Oriana nell’omonimo capitolo, bellissima prostituta trentenne indirettamente costretta dal fascismo a esercitare tale professione, che riuscì, nel piccolo ambiente costituito dalla casa d’appuntamenti Pensione Eva, a “sconfiggere” il movimento fascista; l’ultima, fortissima immagine che affiora dalle pagine del racconto è quella di lei piangente, con in pugno una bandiera rossa, tra i membri del comitato antifascista che accolse gli americani ormai giunti alle porte del paese45.

La prima di queste due opere può certamente essere considerata emblematica, per la serietà, la completezza d’analisi dimostrata nell’atto di scrivere a proposito del fascismo, nonché, soprattutto, per la partecipazione emotiva da parte dell’autore.

Il nipote del Negus, invece, è un’opera di tutt’altro genere, molto più ironica, molto più “disinvolta”; in questo secondo romanzo la narrazione è condotta in terza persona, anche se, nella Nota, non manca la menzione del «clima di stupidità generale, tra farsa e tragedia, che segnò purtroppo un’epoca»46.

Come già detto, Privo di titolo prende spunto da fatti realmente avvenuti, tra i quali l’uccisione di un ragazzo di fede fascista per la quale venne ingiustamente accusato un comunista; questi scontò per tutta la vita l’onta di essere considerato, seppur ingiustamente, colpevole; Il nipote del Negus, invece, risulta vagamente ispirato a un fatto realmente accaduto; si tratta di un romanzo incentrato sulle vicende, in alcuni casi veramente assurde e paradossali, occorse al davvero eccessivamente viziato principe etiope cui fa riferimento il titolo, il quale, pur di non mettere minimamente a repentaglio il buon andamento della politica del regime fascista, viene sempre assecondato nelle sue spesso esorbitanti richieste.

Privo di titolo lascia trasudare tutto lo sdegno di Camilleri nei confronti delle azioni e soprattutto dei paradossi derivanti dall’operato del partito dittatoriale italiano, come nei due episodi cardine del romanzo (per giunta, come detto, ispirati da reali avvenimenti di cronaca, come spiegato dallo stesso autore nella Nota)47: ci si riferisce all’uccisione del diciottenne fascista Gigino Gattuso (il Calogero Grattuso del libro), per la quale venne accusato ingiustamente il cinquantenne comunista Michele Ferrara (alias Michele Lopardo), e alla fondazione, sempre per mano del fascismo, della città di Mussolinia, a pochi chilometri da Caltagirone48.

In generale, comunque, aleggia nell’opera il continuo senso di scoramento di Camilleri, per via dell’arroganza e della prepotenza fasciste, nonché a causa degli imbrogli, dei paradossi e della violenza derivanti dall’attività del movimento in casacca nera – e, perché no, per via del consenso verso la volontà politica di quest’ultimo da parte di giornali e opinione pubblica49. Anche se ovviamente c’è chi si pone in dissidio con il fascismo, simbolicamente o concretamente. Rispettivamente defecando in una bombetta rubata al duce nel corso della cerimonia della posa della prima pietra di Mussolinia, per poi pulirsi con una pergamena, anch’essa trafugata, che avrebbe suggellato la nascita della stessa50, e facendo scoppiare una rivolta popolare in seguito al delitto Matteotti51.

Nel Nipote del Negus Camilleri denuncia il razzismo e le discriminazioni sociali connaturate al regime fascista; ma non solo: l’autore, molto abilmente, trova anche il modo di mettere giustamente a nudo, oltre ai lati negativi del fascismo, anche il razzismo nazista, il quale, come purtroppo ben si sa, si accompagnò, in maniera a dir poco preponderante, all’attività del partito nazionalsocialista tedesco.

Razzismo, discriminazioni sociali, prepotenze, imbrogli, arroganza, violenze: queste dunque le coordinate che permettono di inquadrare anche il fascismo all’interno dell’analisi della questione sociale in Andrea Camilleri.

1 A. Camilleri, Il re di Girgenti, Palermo, Sellerio, 2011, pp. 25-26.

2 Ivi, pp. 201-202.

3 Ivi, pp. 182-196.

4 Ivi, p. 173.

5 Ibidem.

6 Ivi, p. 211.

7 A. Camilleri, La banda Sacco, Palermo, Sellerio, 2013, secondo risvolto di copertina.

8 Ivi, p. 181.

9 Ivi: mi rifaccio anche a quanto espresso da Salvatore Silvano Nigro nel secondo risvolto di copertina.

10 Ivi, p. 165.

11 Ivi, p. 37.

12 Ivi, p. 64.

13 Ivi, p. 153.

14 «Nella Mossa del cavallo metto l’accento sul rovesciamento dei ruoli (il testimone che viene fatto passare per colpevole); insisto su un gioco delle parti che mi sembra essere sempre più consueto nell’Italia d’oggi»: A. Camilleri, La mossa del cavallo, Milano, Rizzoli, 2001, dalla quarta di copertina.

15 A. Camilleri, La voce del violino, in Id., Storie di Montalbano, a cura e con un saggio di Mauro Novelli, Mondadori, Milano, 2002, p. 830.

16 Giuseppe Passarello (a cura di), Da Verga a Camilleri. Uomini idee società dell’Isola grande, Palermo, Palumbo, 2002, p. 224.

17 A. Camilleri, La concessione del telefono, Palermo, Sellerio, 2008, pp. 257-264.

18 Ivi, pp. 265-267.

19 Ivi, p. 268.

20 N. Borsellino, Introduzione ad A. Camilleri, Storie di Montalbano, cit., pp. XXIV-XXV.

21 A. Camilleri, Il cane di terracotta, in Id., Storie di Montalbano, cit., pp. 170-172, p. 221.

22 A. Camilleri, La gita a Tindari, ivi, pp. 918-920.

23 «In anni recenti c’è stata, terminata la sanguinosa guerra dichiarata dalla mafia corleonese contro gli avversari interni e poi contro lo Stato, una sorta di serpeggiante rivalutazione della “vecchia” mafia. In realtà, e il capitolo [Camilleri sta facendo considerazioni sul capitolo II, N.d.R.] lo dimostra ampiamente, la “vecchia” mafia era composta da feroci assassini così come lo era quella “giovane”. L’unica differenza tra le mafie è che la “vecchia” aveva un suo delirante “codice d’onore”. Il quale codice, però, non teneva conto alcuno non solo della vita, ma anche dell’onore delle sue vittime, come si è visto nell’atroce scempio della famiglia Gallo»: A. Camilleri, La banda Sacco, cit., pp. 162-163.

24 «Quest’omicidio era stato fatto, opuro ordinato, che era la stissa cosa, da qualichiduno che agiva ancora nel rispetto delle regole della vecchia mafia. E pirchì? Semprici la risposta: pirchì la nova mafia spara a tinchitè, a dritta e a manca, a vecchi e a picciliddri, indove capita capita e non si degna mai di dari ‘na spiegazioni di quello che ha fatto. La vecchia mafia, no: spiegava, cuntava, chiariva. Certo non a voci o mittenno nìvuro supra bianco, chisto no, ma a segni. La vecchia mafia era maestra di semiologia, che sarebbi la scienzia dei segni che servino a comunicare. A. Camilleri, Il campo del vasaio, Palermo, Sellerio, 2008, pp. 110-111.

25 Sembra proprio che il giovane intellettuale toscano Leopoldo Franchetti possedesse una concezione del fenomeno uguale, o perlomeno simile, a quella di Camilleri: ciò viene messo in risalto da Salvatore Lupo, autore di cui si parlerà pure in seguito, nel suo Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, in cui si trova scritto che«in Franchetti […] non c’è alcuna indulgenza per la cultura mafiosa, maligna o benigna»: S. Lupo, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Roma, Donzelli, 1993, p. 33.

26 A. Camilleri, Il birraio di Preston, cit., p. 37.

27 Ivi, p. 221.

28 Ibidem;ivi, pp. 219-220.

29 G. C. Marino, I padrini, Roma, Newton & Compton, 2001, p. 15.

30 A. Camilleri, Il birraio di Preston, cit., pp. 73-76.

31 A. Camilleri, La banda Sacco, cit., pp. 164-166.

32 G. C. Marino, I padrini, cit., pp. 24-25.

33 A. Camilleri, Il re di Girgenti, cit., pp. 158-165.

34 A. Camilleri, La banda Sacco, cit., p. 33.

35 Possiamo ritrovare un orientamento simile anche in Camilleri; infatti, «brigantaggio l’ho scritto tra virgolette per farmi arrasso dalle tesi della storiografia ufficiale, almeno come ancor oggi risulta dai libri di scuola, che mistificano, spacciano per banditismo quella che in realtà fu anche una gigantesca rivolta contadina. E valgano le cifre. […] Risulta che la repressione contro il “brigantaggio”, nel periodo compreso tra il primo giugno 1861 e il 31 dicembre 1865, portò a questi risultati: fucilati o uccisi in combattimento: 5.212; arrestati: 5.044; presentatisi (arresisi cioè): 3.587; per un totale di 13.843 persone. […] Un po’ troppi per trattarsi di puri e semplici banditi da strada»: A. Camilleri, La bolla di componenda, Palermo, Sellerio, 2004, pp. 19-20.

36 G. Passarello (a cura di), Da Verga a Camilleri. Uomini idee società dell’Isola grande, cit., p. 94.

37 Cfr. A. Camilleri, La paura di Montalbano, Milano, Mondadori, 2003.

38 A. Camilleri, La banda Sacco, cit., pp. 22-24.

39 Basterebbe solamente leggere la parte di questo saggio dedicata all’analisi del romanzo La mossa del cavallo.

40 Il re di Girgenti, se vogliamo, è forse l’unico romanzo storico di Andrea Camilleri in cui non è presente la mafia, e c’è una specifica ragione per ciò: l’opera, infatti, risulta ambientata a cavallo tra gli ultimi decenni del Seicento e i primi del Settecento (vedi supra, la Premessa), mentre di mafia si comincia a parlare solo dopo il periodo del Risorgimento italiano (più specificatamente dopo il 1865), come sottolineato da Salvatore Lupo.

41 A. Camilleri, Privo di titolo, Palermo, Sellerio, 2005, pp. 9-15.

42 Ivi, pp. 289-293.

43 A. Franchini, Cronologia in A. Camilleri, Storie di Montalbano, cit., pp. CV-CXI.

44 Ivi, pp. CXV-CXVI.

45 A. Camilleri, Donne, Milano, Rizzoli, 2014, pp. 146-151.

46 A. Camilleri, Il nipote del Negus, Palermo, Sellerio, 2010, pp. 276-277.

47 A. Camilleri, Privo di titolo, cit., pp. 295-296.

48 Ivi, p. 295.

49 Ivi, pp. 292-293.

50 Ivi, pp. 231-236.

51 Ivi, p. 237.