L’ultima margherita

Pubblichiamo oggi L’ultima margherita il racconto di Giacomo Lombardi classificatosi secondo ex aequo nella sezione Narrativa.

L’ultima margherita
Fiotti di luce penetrano dalle persiane inondando ora il letto, ora il pavimento, ora le mie gambe.
Scivolo giù dal letto e a piedi scalzi mi dirigo in bagno. Ho un cerchio alla testa che non mi dà tregua, sarà la bottiglia di vino o forse il pacchetto di paglie che ho fatto fuori ieri.
Svuoto la vescica sbadigliando, poi mi fermo davanti allo specchio del lavandino. Ho una cera da far schifo. Ormai sono mesi che non metto il becco fuori di casa.
Mi lavo la faccia, cerco di dare una raddrizzata ai capelli. Mi lavo i denti.
Poi vado in sala e mi siedo sul divano. Accendo una paglia.
L’ultima lettera è ancora lì, sul tavolino.
Ci dispiace informarla che…
Accendo il cellulare. Tre chiamate perse. Due sono di mia mamma e una di Silvia, la mia fidanzata. Ormai dovrei decidermi a chiamarla ex, da quando ha voluto prendersi una pausa di riflessione, sei mesi fa.
Lascio scorrere gli occhi per la stanza, sulle bottiglie di vino vuote, sui posaceneri pieni.
I ritratti di Haydn e Liszt, che ho appeso ai muri il primo giorno che sono venuto a vivere qui, nella Capitale, mi guardano con severità.
Quanto ero diverso allora. Nulla mi sembrava impossibile. Il sogno che avevo inseguito per anni era lì, a portata di mano. Mi bastava chiudere gli occhi per ritrovarmi sopra a quel meraviglioso palco foderato di legno e avvolto dalla luce dei riflettori. La platea immersa nell’oscurità con il respiro strozzato in gola.
Visioni che erano ossigeno per la mia mente.
Pile di spartiti sono ammucchiati sul tavolino, mentre il leggìo giace spiegazzato sotto la tivù. Poi i miei occhi si fermano sulla vetrinetta di fianco all’ingresso. All’interno, il mio violino. Un Antonium Nicolas. Costato un occhio, me lo avevano regalato i miei il giorno del diploma al Conservatorio. Ho incorniciato una fotografia, di quel giorno. La tengo in camera. Ci siamo io, mio padre e mia madre. Io sono al centro, un sorriso che non finisce più. Anche i miei sembrano sorridere, ma guardandoli bene la loro sembra più una smorfia.
Non sono mai stati contenti della mia scelta di fare il musicista, perché si sa, i musicisti sono sempre morti di fame. Ma il cuore è il cuore, e a vent’anni si segue solo quello. Avevo insistito per fare il Conservatorio. Avevo puntato i piedi, sopportato litigi, minacce e preghiere con una calma serafica. La musica era la mia vita e prima l’avrebbero capito, prima avremmo risolto tutti i problemi che ci angustiavano da anni.
Alla fine avevano ceduto.
Vado in camera e scelgo con cura quali vestiti mettermi. I più eleganti, quelli che usavo per i concerti, quando ancora mi chiamavano. Spazzolo con cura la giacca, poi i pantaloni. Sfilo una camicia bianca dal cassetto. Mi vesto con calma, come
dovrebbe fare ogni musicista prima di ogni concerto. Quando sali sul palco devi essere impeccabile, nella musica e nello stile.
In strada il sole è già alto, fa un caldo insopportabile e sul marciapiede la gente marcia serrata nei due sensi di direzione come in autostrada. Un mare di ventiquattr’ore e occhi puntati sugli orologi; turisti con ampi cappelli di paglia e vestiti di lino si guardano attorno sorridenti. Probabilmente non sanno che è la giornata più buia della mia vita. Se lo sapessero, si strapperebbero quello stupido sorriso dalla faccia.
Mi volto a sinistra e sparisco tra la folla.
Passo davanti ad un fioraio. Ficco la mano in tasca per vedere quanti soldi ho. Pochi, naturalmente, ma non posso rinunciare al mio portafortuna. Stile e musica. Solo i perfezionisti possono capirmi.
Entro e davanti a me c’è solo una coppia anziana con tutta l’aria di chi è incerto sul da farsi. Li scanso con il garbo che meritano e mi piazzo davanti al bancone. Dopo poco ne emerge una ragazza con un sorriso incerto, per chiedermi cosa desideri.
“Una margherita.”
“Come, prego?”
“Una… margherita,” ripeto digrignando i denti.
La coppia di anziani si volta verso di me. Forse han compreso con la dovuta calma che il mio garbo non era sufficiente.
“Si,” fa lei “torno subito.”
Sparisce dietro al bancone e poco dopo ne riemerge con una margherita, di quelle belle grandi.
“Ecco, fanno due euro.”
Un fiore può costare maledettamente tanto, a quanto pare.
Sfilo i soldi dalla tasca: ho due euro e settantacinque in tutto. Pago ed esco.
Mi dirigo verso i giardinetti, a poche centinaia di metri. Ho bisogno di pensare bene a quello che sto per fare, perché non sono più molto convinto, di volerlo fare; ma in compenso so che qualsiasi cosa che farò, la farò con stile. Solo i più grandi pensano allo stile anche nei momenti più incerti. E per un musicista lo stile è tutto: la perfezione cui aspira abbracciando il suo strumento, diventa parte di lui come la sua ombra.
Quando arrivo, mi siedo su una panchina isolata, estraggo la margherita dalla carta e spezzo il gambo. Poi la infilo nel taschino della giacca. Un ultimo sguardo al mio portamento: si, ora sono pronto.
Per fortuna non passa molta gente qui, le grandi menti hanno bisogno di silenzio per pensare. Sarà un caso che i mercati sono così affollati?
Chiudo gli occhi e lo sento. L’archetto che zampilla sulle corde come un fauno dispettoso. Poi un timido oboe fa capolino come per sostenerlo con le sue arie. Anche un flauto entra in scena e offre il suo aiuto per mantenere quelle note di violino nell’aria, come bolle di sapone.
La Messa Glagolitica di Janacék.
Sono mesi che non ascolto quel pezzo eppure lo spartito è scolpito nel mio cervello in tutta la sua perfezione. Già, mi sembra di vederlo quel furbacchione di Leos, mentre si sfrega compiaciuto le manine dopo aver regalato al mondo questa piccola perla. Lo vedo, mentre si alza dal piano dopo aver scribacchiato l’ultimo rigo, andare a stappare la bottiglia migliore in compagnia della sua vecchia, che di musica non capisce una ceppa.
“Leoncino caro,” gli avrà detto, “ma perché stai sempre chino su quel piano e non mi porti mai al mercato come gli altri mariti? Io adoro il mercato!”
“Non ne dubito, donna,” avrà detto Leoncino con un mezzo sorriso “ma i musicisti hanno bisogno di silenzio, nella penombra della loro stanzetta, per consegnare la loro musica alla storia. Non siamo nati tutti quaccheri.”
“Che barba!” gli avrà risposto l’impudente mogliettina.
Ecco quale sarà stato il primo complimento a quel prodigio che ora srotolo nella mia mente. Sento il battito del cuore accelerare, mentre l’archetto nella mia testa continua i suoi prodigi. Un muro si crea tra me ed il resto del mondo, sento il fuoco che divampa; mi fa stringere i pugni e digrignare i denti.
Poi una risata. Una stupida risata che mi riporta sulla panchina. Una donna, poco distante, ridacchia con una sua amica indicandomi. Povere stolte, il vostro posto è alla banchetta a contrattare prezzi.
Mi alzo e cerco una fontanella. Sto bruciando di sete e di caldo. Il vestito che porto, anche se impeccabilmente elegante, è in acrilico.
Ne vedo una a poche decine di metri. Attorno c’è un sacco di gente che riempie bottigliette. Quando è il mio turno, appoggio la mano sul rubinetto, ma una vecchia si fa avanti. E’ piccola e tonda ed ha un cagnetto al guinzaglio che appena mi vede si mette a ringhiare.
“Adesso è il mio turno, giovanotto.”
Mi faccio da parte, mentre la vecchia, dopo aver preso una ciotola dalla borsa, prova a spingere il rubinetto senza riuscirvi.
“Mi dia una mano, buon Dio! Non stia li con quella faccia e con quei…capelli!”
Spingo il rubinetto, che comincia a sgorgare acqua. Lei riempie la ciotola mentre il cane non smette un secondo di ringhiare. Poi, tra un latrato e l’altro lo sento dire: “fammi bere, bastardo!”
Un cane che parla. Lo guardo incredulo, sono sicuro di aver capito male, deve essere il caldo. La vecchia posa la ciotola per terra, ma il cane continua a ringhiare.
Mentre bevo, a un tratto lo sento di nuovo: “ingozzati fino a scoppiare, stupido capellone.”
“Stai parlando con me?”
La vecchia mi guarda sbigottita.
“Perché mi insulti?” continuo rivolto al quadrupede.
“Perché sei un coglione. Un coglione capellone e disoccupato!” fa lui. Poi comincia a ridere come un pazzo.
Ma la vecchia lo tira da parte e alza il bastone sulla mia testa: “ma che fa, parla col mio Bibi!”
“Signora, il suo cane mi offende.”
Lei sgrana gli occhi. Il cagnetto non smette di sbellicarsi dalle risa.
“Lei è impazzito! Si tolga dai piedi prima che chiami la polizia.”
Quindi fa per andare via, ma io voglio chiedere al cagnetto perché mi abbia offeso. Non è colpa mia se sono disoccupato. Gli artisti sono quasi sempre incompresi e solo dopo la morte ne si comprende il valore. Quindi lo afferro di soppiatto e lo sollevo con entrambe le mani: “dimmi perché mi hai offeso cagnetto, dimmelo!”
La vecchia comincia a bastonarmi mentre il cane abbaia: “lasciami, dannato idiota!”
Allora rivolgo il cane verso i colpi della vecchia per farmi da scudo. Uno lo centra i mezzo agli occhi. Il cane squittisce e smette di agitarsi, mentre la vecchia si fa pallida: “oddio Bibi, oddio!”
Scuoto il cagnetto. Non si muove più. Lo adagio a terra delicatamente, come se fosse un soprammobile di vetro.
Meglio andare via.
Squilla il cellulare: Silvia.
Da quando ha optato per la pausa riflessione si è trasferita in una mansarda qui vicino. Potrebbe aver visto tutto, la scena del cane, della vecchia. Ho ancora nelle orecchie la sua voce stridula che mi rimprovera di essere un fallito con la testa piena solo di DO RE MI FA SOL. L’ultima volta ha detto di non farcela più a vivere con me, che ero troppo sfigato per i suoi standard. Brava Silvia, meglio un banchettaro da mercato, quello si che fa per te. Non hai mai compreso la mia sensibilità, hai sempre storto la bocca durante le mie prove in casa, durante le mi esibizioni pubbliche alzavi gli occhi al soffitto sbuffando. Io ti osservavo. Ma da domani, sentirai il mio nome riecheggiare nell’eternità e il mio ricordo ti seguirà tutta la vita come la grande occasione perduta.
Spengo il cellulare.
Ho voglia di un caffè.
Entro in un bar e lo ordino. Mentre la ragazza è al lavoro, io la osservo per vedere se mi guarda male o se mi offende con dei labiali poco cortesi. E poi le guardo anche il fondo, che non ho mai visto così soffice e spugnoso.
“Va tutto bene, amico?” mi fa ad un tratto il suo collega.
“Parla con me?”
“Si.”
Non rispondo e torno a concentrarmi sul suo fondo, che trema ad ogni suo passo come un albero al vento.
La ragazza mi porge il caffè e mi guarda torva.
“Cosa ho fatto che non va?” le chiedo.
Lei mi guarda ancora più torva: “come, prego?”
“Perché mi guardi così? Guardi così tutti i disoccupati che entrano qui dentro? E’ colpa mia se nessuno riconosce il mio talento da violinista? Guarda queste mani: hanno suonato musiche divine nei più grandi teatri d’Europa. C’è gente che si è
rotta i capillari delle mani a forza di applaudirle. Ed ora che non mi fanno più suonare meritano forse meno rispetto?”
“Senti, amico,” fa il suo collega “forse è meglio se paghi e te ne vai.”
“Va bene.”
Prendo tutti gli spiccioli in fondo alla tasca e li tiro al di là del bancone. Solo quando esco dal bar mi accorgo di non aver bevuto il caffè.
Mi dirigo verso il fiume e lo costeggio, godendomi l’ombra delle frasche degli alberi, finché non arrivo ad un bel ponte a schiena d’asino. E’ affollato di turisti, pecoroni che belano e guardano in tutte le direzioni.
Mi fermo sul punto più alto e guardo di sotto. E’ una bella scarpata. Ricontrollo il vestito, i capelli, la margherita. Domani il mio nome rimbomberà su tutti i muri di questa città e finalmente avrò ciò che mi è sempre spettato. Ciò che è mio di diritto e che mi è sempre stato negato. Domani fiumi di lacrime riempiranno questo sparuto torrentello che striscia qui sotto.
Faccio per salire sulla balaustra, quando sento una vocetta alle mie spalle: “fermo, coglione!” Mi giro appena in tempo per vedere un grosso cane lupo che mi addenta una gamba.
“Ahi!”
Si girano tutti. Qualcuno urla, qualcun altro scappa. Il bastardo mi tiene saldo ed ogni tanto mi strattona, quando il padrone si gira e comincia a tirarlo dal guinzaglio.
“Molla l’osso Cesare!”
Lo guardo straniato: “guardi che è il cane che mi sta mordendo. Io sono la vittima.”
Lui mi guarda sorridendo: “certo, ma vede, il mio cane si chiama Cesare.”
Non mi era mai capitato di trovarmi faccia a faccia con un cane mio omonimo.
Dopo qualche tozza in testa, Cesare (il cane) molla la presa mentre io (Cesare uomo) mi allontano zoppicando.
Riproverò in un secondo momento.
Giungo in una piazzetta storica gremita di gente. Una musica lontana, incalzante, mi giunge alle orecchie. Sembra un simpatico motivetto di Kraus, anche se l’orripilante violino rovina tutto. Sono curioso di vedere chi è il cane improvvisato.
Lo scorgo tutto concentrato tra una scimmietta alla tromba ed un nanetto al contrabbasso.
E’ impegnato in un assolo che ricorda il ronzio di una mosca ubriaca che sbatte contro un vetro.
Questa musica è un insulto al mondo dell’arte. Uno sputo in faccia a Vivaldi. Un calcio nelle palle a Rossini.
Bisogna che intervenga.
Mi avvicino al cagnolone.
“Smettila,” gli dico.
Lui mi guarda come un ladro beccato con le mani in pasta.
“Ciao Cesare, che piacere vederti.”
“Tu sai come mi chiamo”.
“Certo,” fa lui sibilando “eravamo nella stessa orchestra nell’ultimo concerto al Teatro San Prospero. Ricordi?”
“Considero una fortuna l’essermi dimenticato di una cane come te.”
“Senti Cesare,” fa lui allungando le mani “non voglio problemi, occhei? Non è stata colpa mia se ti hanno buttato fuori dall’orchestra.”
“Dunque mi hanno buttato fuori, non si erano…”
“Certo. Hai rotto la bacchetta in testa al direttore nel bel mezzo dell’overture della Gazza Ladra e poi lo hai schiaffeggiato.”
“Costui era un imbecille, lo ricordo bene.”
“Beh, non sta simpatico a nessuno se è per questo, ma picchiare un direttore nel mezzo di un’esecuzione…”
“Non mi piegherò al servizio di simili lestofanti. E tu suoni ancora in quell’orchestra immagino. Tale direttore, tale orchestra.”
“Certo. Sai, è molto difficile trovare ingaggi al giorno d’oggi. E poi con la miseria di stipendio che ci danno, spesso siamo costretti a suonare per strada per arrotondare.”
“Sei solo un impostore.”
Gli strappo il violino dalle mani e chiudo gli occhi.
1812 Overture. Potente e frizzante come l’acqua di una sorgente alpina. Le mie dita scorrono sicure sullo scettro di legno. Lo spartito è stampato nel mio cervello, come se l’avessi davanti agli occhi. L’opera ha delle arie perfette, raggiunge picchi turbolenti per poi planare verso valli mozzafiato.
Ci sono tuttavia note strambe, e non capisco perché Pёtr Ilic le abbia scelte. Le sostituisco con altre, più efficaci, seguendo solo il mio istinto più puro.
Ma poi ecco che si inceppa l’archetto e si spezza una corda.
Diamine!
Scaglio per terra il legno inveendo e, quando alzo gli occhi, mi accorgo che una platea immensa mi si è radunata attorno. Il respiro si è fermato a mezz’aria. Donne, bambini, vecchi, persino la banda degli animali stanno lì, a guardarmi con le ciglia aggrottate.
Li ho lasciati di stucco, è chiaro.
“Che c’è, non avete mai sentito un po’ di musica? Tu, cagnolone, dovresti fare altro nella vita.”
“Cesare, la tua musica è… interessante. Ma non dovevi rompermi il violino. Ora come farò?”
“E’ giusto che suoni solo chi ha l’abilità per farlo. E poi le corde erano marce.”
“Erano nuove. E poi vanno solo pizzicate…”
Ah! Bella questa.
Mi rivolgo alla folla: “udite! Costui con quel brutto muso da cane vuole insegnare a suonare a me!”
Poi me ne resto lì, ad aspettare lo scroscio di risa che però non arriva. Avverto solo un brulicare di voci. Sembrano disorientate, ma è normale che non tutti comprendano una musica di tal fatta.
Chissà, forse anche Lizst sentiva tutto questo brulichio dopo ogni concerto? Sono quasi certo che anche Schumann si sia beccato qualche pomodoro in un paio di occasioni. E’ tutto normale, fa parte dell’essere una razza umana a parte. Una razza umana superiore e non compresa. Non posso fare altro che compatirli tutti.
Me ne voglio andare.
“Aspetta Cesare,” fa il cagnolone rincorrendomi “aspetta che stanno arrivando gli altri ragazzi dell’orchestra. Vorrebbero salutarti.”
“Cosa vogliono?” faccio grattandomi un orecchio.
“Mi hanno chiamato al cellulare or ora. Ti vogliono parlare di un certo progetto.”
Ah! Lo sapevo che sarebbero tornati strisciando!
“E’ inutile, tanto non ci tornerò in quell’orchestra pidocchiosa.”
“Allora magari potremmo fondare un’orchestra nostra, e tu potresti fare il primo violino. Abbiamo bisogno di talenti come il tuo.”
Il cuore mi rimbomba in gola.
“Non so se lo meritate. Ho passato gli ultimi sei mesi a casa, disoccupato, per colpa vostra. Ho sofferto come un cane. Se non fosse stato per il mio amico Wolfgang Amadeus, che mi veniva a trovare ogni tanto per fare due chiacchere, sarei impazzito. Nessuno di voi si è mai fatto vedere che so, per un terzetto d’archi. O anche solo per fare due chiacchere.”
“Mi dispiace tanto, siamo sempre occupati a cercare il modo di tirare su quattrini; guardaci, siamo qui in piazza col cappello. Che altro possiamo fare? Ma non devi più preoccuparti, ora si sistemerà tutto.”
Devo ammettere che il cagnolone sa abbaiare bene. Nessuno mi aveva mai detto delle parole così gentili. Dunque tornerò a suonare, il sogno non è finito. Il solo pensiero mi fa venire le lacrime agli occhi…
“No Cesare, non piangere. Su, alzati. I musicisti soffrono dentro ma in pubblico sorridono sempre.”
Poi ad un tratto si volta: “eccoli là, stanno arrivando!”
Li scorgo tra la folla. Sono tutti vestiti di bianco come angeli, ma non hanno strumenti con loro.
Mi afferrano per le braccia ed i piedi, proprio come i grandi musicisti quando vengono trasportati dalla folla adorante. Il cagnolone aveva ragione, costoro conoscono il mio talento.
“Dove andiamo ragazzi? Mi portate al teatro? Guardate che non ho il violino con me.”
Loro si guardano: “Certo, proprio al teatro.”
Ma poi una vocina dentro di me si ribella: non puoi dargliela vinta così, dopo tutto quello che hai passato! Mesi interi di solitudine passati su quel divano a fumare rodendoti il fegato, versando lacrime nel vedere il violino impolverarsi nella bacheca. Ora tornano strisciando. No! Sottrai il tuo genio dalle loro becere mani! E poi, siamo sinceri, uno come te deve esibirsi con impostori di tal fatta? Il tuo nome sbiadirebbe nell’astro del firmamento della musica, mentre ora è all’apice.
Dovrei ringraziare più spesso il mio sesto senso.
Mulino in aria pugni e piedi colpendo i bianchi a caso finché non mi mollano e casco a terra. Eccomi libero. “Spiacente ragazzi, ma questo cervello che bramate per arrivare alla gloria, non lo avrete mai. A voi spetta solo la mediocrità. Domani, a quest’ora, il mio nome sarà stampato a caratteri cubitali nella storia della musica.”
Quindi scappo, mentre quelli mi inseguono indemoniati ed in due balzi arrivo al ponte. Salgo sulla balaustra. “Ricordatevi queste parole, buffoni, cosicché le possiate trasmettere alle generazioni future! Io, Cesare uomo, sono nato con un dono speciale ma non sono stato compreso. E’ da tanti mesi che sono disoccupato e ho sofferto molto…ma va bè. Ora qualcuno si è accorto del mio talento e vuole costringermi ad entrare nella sua orchestra di quadrupedi con la forza, per innalzare il livello della loro musica ed impossessarsi così di un talento a loro estraneo.”
Nel frattempo i bianchi e la banda degli animali arrivano proprio sotto la balaustra e cercano di farmi scendere con le cattive, ma io pesto loro le mani.
“Scendi Cesare!”
“Sarebbe bello se potessi dimenticare la vostra superbia. Ma nella mia testa c’è una voce gentile che mi mette in guardia da voi approfittatori. E per me ha ragione! Voi mi avete scaricato come uno spartito pieno di strafalcioni, mentre la mia musica faceva muovere i piedini e sbattere le alucce agli angeli del paradiso.”
“Cesare perdonaci. Ma ora scendi.”
“Non mi dire così, per favore. Comunque!” dico puntando il dito al cielo “non sarò io a trascinarvi fuori dal pantano della comune mediocrità in cui siete nati e vivrete.”
Prendo la margherita dalla tasca e gliela tiro ai piedi. Poi mi volto verso il vuoto e chiudo gli occhi.
Ma qualcosa mi trattiene, mi tira per la giacca.
“Che c’è ancora? Lasciatemi andare!”
Mi sveglio di soprassalto, tutto sudato. Un cerchio mi stringe la testa e sento male dappertutto. Un sogno, lo stesso che mi perseguita da mesi. Prendo una compressa dal comodino e la mando giù con un bicchiere d’acqua, poi mi alzo. Sbircio fuori dalla finestra ed il sole è già alto in cielo. Mi trascino in bagno dove raggiungo il gabinetto facendomi largo tra biancheria sporca di settimane, polvere e peli. Mentre mi lavo i denti sento il cellulare suonare, un messaggio. Sarà mi madre. Vado in salotto e accendo una sigaretta mentre mi siedo sul divano. Tracanno il rimasuglio di vino rancido che era rimasto da ieri sera. Che schifo.
Guardo il cellulare: il messaggio è di Silvia.
Ieri ti ho visto ai giardinetti vestito da concerto. Va tutto bene?