Chiamatemi Alice

Proseguiamo la pubblicazione dei migliori racconti premiati al Clepsamia 2019. Oggi presentiamo Chiamatemi Alice di Sabrina Stocco, racconto classificatosi al 4° posto ex aequo.

Chiamatemi Alice

Lei, sola, al terzo giorno.
Non prendeva in mano il diario da una vita.
Dario se n’era andato, un po’ come Marco in quella vecchia canzone, e lei sapeva di per certo che non sarebbe mai più tornato.
La ragazza si era sfogata, l’aveva insultato, non l’aveva ascoltato e non era nemmeno stata in grado di amarlo.
Forse perché lei l’amore non sapeva neanche cosa fosse.
Ma ricorderà per sempre il giorno in cui l’ebbe incontrato: così scontroso, perso in chissà quale mondo, così diverso. Biondiccio, con un orecchino e un tatuaggio sul collo, fastidioso e irritante, ma così assurdo da non riuscire più a uscire dalla sua mente.
Lei non gli rivolgeva parola, all’inizio, così fredda, arrogante e sola.
Se ne stava per i fatti suoi, in quella solita e spoglia stanza d’ospedale dove lui entrava ogni mattina a fare delle domande insolite, che non avevano davvero alcun senso. Si interrogava sulla salute dei pazienti, come fosse un infermiere alle prime armi, ma non indossava nemmeno il camice. Forse era solamente lo stupido nipote di uno dei vari vecchietti degenti nel reparto di geriatria dove la ragazza era ormai ricoverata da anni, costretta a starci poiché il suo strano caso era diventato una questione di estrema sfida personale per il primario del piano.
Lei un giorno lo attaccò, lo prese per il culo e i due cominciarono a sfidarsi.
“Lasciami in pace, con le tue stupide domande di merda e non tornare mai più. Non ci voglio nessuno nella mia stanza.”
“Non me ne frega un cazzo, sai? Lo devo fare per forza, che a te piaccia o no.”
Testardo e senza cuore anche lui, ma lei era più stronza. In cuor suo, lui era molto più buono.
Come quella mattina in cui la trovò in preda a una delle solite crisi, una di quelle che ti bloccano i polmoni e non ti fanno più arrivare aria alla testa, e allora finisci quasi per soffocare e a sputacchiare sangue sul cuscino. La ragazza poteva ancora ricordare i suoi occhi spaventati, di chi non sa assolutamente cosa fare. Ricordava le sue mani sul collo e sulla schiena, pronte a sorreggerla e aiutarla, anche se non era affatto così che avrebbe potuto risolvere il problema. La cordicella del campanello di allarme lei la legava sempre troppo lontana dal cuscino perché di aiuto non ne aveva affatto bisogno, ma quella mattina sentì l’estrema necessità che lui si mettesse a urlare e a richiamare l’attenzione di tutto l’ospedale.
Non seppe mai com’è che andò a finire, se lui si mise a urlare per davvero o se ebbe l’intuizione di suonare il campanello o se corse via spaventato lasciandola da sola. I suoi occhi agitati furono l’ultima cosa che lei vide prima di perdere completamente i sensi e quando si risvegliò, due giorni dopo, sentiva che era arrivato il momento di mettere da parte orgoglio e stronzaggine.
“Grazie… per l’altro giorno.”, ci mise una vita a pronunciare queste parole. Non ringraziava qualcuno da anni e soprattutto non si lasciava più andare a espressioni di sincerità e gratitudine.
“E’ il minimo che potessi fare, non credi? Non sono lo stronzo che tu pensi. Non sai niente di me, nemmeno come mi chiamo. Non ti avrei mai lasciata qui a soffocare, anche se mi tratti male da settimane.”
Lui se ne stava ben lontano da lei, quasi sulla porta della stanza, a cercare una distanza di sicurezza.
Ma entrambi non erano ancora in grado di continuare quella conversazione in modo normale.
“Come ti chiami?”
“…Dario”
“Ora che so il tuo nome posso continuare a pensare che tu sia uno stronzo?”
“Hai dei problemi con le persone, vero? Non mi stupisce che non venga mai nessuno a trovarti!”
Quelle parole colpirono davvero nel profondo. Lei era davvero sola, sì, ma non c’era bisogno di farglielo notare ulteriormente.
“Te ne devi andare.”
“Come ti pare, … Come hai detto che ti chiami?”
“Non l’ho detto.”
“Beh, stronzetta senza nome, vedi di smetterla di far finta di dormire ogni volta che passo di qui al mattino, grazie. Devo ingraziarmi tutti i pazienti per potermene andare il prima possibile e tu sei l’unica a ostacolarmi.”
Venne il giorno in cui finalmente si scoprì quale fosse il ruolo di quel tizio in tutta quella messinscena. La ragazzina, col suo solito pigiama a fiorellini di due o tre taglie più grandi del normale e i capelli sempre più arruffati, si aggirava per i corridoi, insonne, non sapendo più che altro fare e si ritrovò a origliare una conversazione più che privata tra due infermiere, di cui una forse ubriaca, intente a sparare commenti maliziosi su quel ragazzo misterioso.
“Ma gliele hai viste le braccia?”
“Smettila Teresa, quello è un delinquente!”
“E allora? Ciò non vuol dire che non sia comunque un gran figo, anzi, tutto questo lo rende ancora più affascinante!”
“Ma smettila! Se ti sentisse tuo marito!”
“Dai, sembra che stia collaborando, no?”
“Bah, si vede lontano un miglio che lo fa controvoglia.”
“Ad alcune pazienti piace però!”
“Ma cosa vuoi che gliene importi?! Non gliene frega niente dei pazienti! L’unica cosa a cui riuscirà a pensare sarà a quanto sia stato fortunato a evitarsi la galera! Ci mancava solo un moccioso ai lavori sociali.”
“Pensala come vuoi, lavori sociali o meno io lo terrei qui per sempre…”
E poi la ragazzina sgattaiolò di nuovo in camera sua.
Le tornò alla mente la notizia mandata al telegiornale qualche giorno prima: un ragazzo, più o meno della sua età, era stato arrestato per furto d’auto con scasso e gli era stata concessa la libertà vigilata e una condanna limitata a dei lavori di volontariato in un ospedale.
Ovviamente, quando lui si palesò nella sua stanza quella mattina stessa, lei non si fece scappare l’occasione di sferrargli un meraviglioso colpo basso.
“Non smetterò mai di trattarti di merda, non me ne frega niente di ostacolarti nel piacere a tutti, anzi, ti renderò la vita ancora più un inferno.”
“Tu sei pazza, sai? Ma non mi sorprende affatto, è il motivo per cui sei qui, no?”
“Almeno io non sono una ladra.”
“Di cosa stai parlando?”
“Sei qui a fare beneficienza per evitarti la galera, no?”
E i due finirono per gridarsi addosso insulti di ogni genere, a voce talmente alta che dovettero intervenire le infermiere per farli smettere. Le dissero di stare calma, che non era successo proprio un bel niente, eppure quel tipo stava mettendo a dura prova la sua capacità di mantenere il controllo, e lei un po’ lo odiava per questo, ma un po’ le faceva piacere sapere di aver trovato finalmente qualcuno su cui sfogare gran parte di tutto ciò che si portava dentro.
Fu alla festa di Natale che cambiò tutto.
Le si sedette di fronte “Costretto dai dottori”, disse. Lei lì non ce lo voleva affatto, ma lui le fece notare quanto sarebbe stato imbarazzante e controproducente mettersi a urlare di fronte a tutti nel bel mezzo dei festeggiamenti e del gioco della tombola.
Restarono seduti una di fronte all’altro per un po’, finché Dario non esultò come un bambino per aver fatto una stupida cinquina. Se ne andò a scegliere il suo premio tutto raggiante, non prima di combinarla davvero grossa. Nel momento di esultanza la ragazza, vedendolo gridare come un indemoniato, si mise erroneamente a ridere e lui, avvicinandosi un po’ troppo al suo orecchio, le sussurrò qualcosa che non avrebbe mai dovuto dirle.
“Sei bella quando ridi.”
Alla ragazza tornarono alla mente i commenti maliziosi dell’infermiera Teresa. Fissò il suo sguardo sulle sue braccia, studiandone la muscolatura ben salda, per poi soffermarsi su tutti i vari dettagli del suo corpo, non rendendosi più conto di ciò che le stesse accadendo attorno.
“Ehiii, ci sei?? Ti sei imbambolata?”
La ragazza non si prese nemmeno la briga di rispondere. Semplicemente imbarazzata, scappò dalla mensa in fretta e furia, non lasciando a nessuno il tempo di accorgersi di ciò che fosse successo.
Una volta in corridoio, si sentì di nuovo se stessa. Come aveva potuto perdersi nei suoi pensieri in quel modo, e poi soprattutto quei pensieri??
“Ehii, tutto okay? Stai bene?”
A quanto pare lui non mollava. Dario le fu accanto in un nano secondo e lei non poteva più farci niente.
“Sì, è che… Non ce la facevo più a stare là dentro.”
“Nemmeno io, sai? Infatti non sapevo più come venirne fuori! Ottima mossa!”
Il ragazzo si mise a ridere sincero e lei non poté fare a meno di farsi contagiare da quell’insensata euforia, tanto che i due finirono per fare un tal baccano da essere ricacciati in stanza dall’infermiera di turno.
Lei si concentrò a cercare qualcosa al di fuori della finestra, lui si mise a sfogliare il libro vinto poco prima.
“Raccolta di poesie per chi si sente solo…”, ne lesse il titolo. “Te lo regalo.”
“Perché?”
“E’ per chi sente solo. È il tuo libro, no?”
“Cosa ti fa pensare che io sia sola?”
“Lo vedo… Non è così?”
“Forse non ci vedi abbastanza bene. Avresti dovuto farti dare degli occhiali come premio. Poi l’ho già letto quel libro, quindi te lo puoi anche tenere.”
“E cosa me ne faccio?”
“Potresti anche leggerlo, sai? Sempre ammesso che tu sappia farlo.”
“Stiamo ricominciando a odiarci?”
“Avevamo smesso di farlo?”
Dario si prese un attimo per pensare, per dare spazio al silenzio e per far depositare la rabbia e la scontrosità che si stavano per impossessare nuovamente di entrambi.
“Tregua?”
“Ci può stare.”
La ragazza se ne tornò a osservare al di fuori della finestra, cercando chissà cosa nel buio della notte, tra quella distesa immensa di luci lontane. Lui si diede del tempo per osservarla, seduto lontano, sul suo letto che lei non aveva mai fatto toccare a nessuno, studiando le sue spalle spigolose e quei capelli disordinati, interrogandosi su ciò che stessero cercando i suoi occhi vuoti. Poi si mise a fare il poeta.
“Wow. Questa sì che parla di te. “Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete, io nel pensier mi fingo; ove per poco il cor non si spaura.”*
“Sai cosa stai leggendo?”
“Leopardi, dice qui.”
“E perché mai dovrebbe parlare di me?”
“Sei lì che cerchi qualcosa al di là di quella finestra, nell’infinito della tua mente, solo per poterti sentire un po’ meglio.”
“Leggere ti fa male.”
“Non prendermi in giro, non sono così stupido. Cos’è che cerchi là fuori?”
“Un posto da sognare.”
“Perché da sognare?”
“Perché ormai non ci posso più andare, ma nei sogni posso fare tutto ciò che voglio. Avevo una vita prima di questo, sai? Ora non mi resta altro che crearmi da sola tutte le storie che vorrei vivere.”
“E cos’è che vorresti fare?”
“Non lo so, forse… Vedere i fuochi a Capodanno sulla spiaggia. Tu l’hai mai fatto?”
“No, ma è un bel sogno”
Il giorno dopo lui si presentò con un mazzo di chiavi e un’idea folle.
“Ti porto ovunque vuoi.”
“Ma non posso uscire. E poi come pensi di poterti spostare? I poliziotti ti riconosceranno subito per strada e a guardarmi capiranno che ho qualcosa che non va.”
“Non se ce ne andassimo in giro in auto!”
Lui risventolò raggiante quelle chiavi e lei ebbe un gran timore.
“Cosa vorresti fare?”
“Lo sapevi che Teresa mi adora? Le ho chiesto di prestarmi l’auto per fare una commissione questo pomeriggio e non ha esitato a dirmi di sì. Credo che sia un po’ troppo attratta da me… In ogni caso, possiamo andare dove vuoi. Ho già fatto la spesa e ho comprato persino un materasso da campeggio!”
Fu così che i due finirono per mettersi in viaggio per davvero.
Stavano inseguendo il mare per vedere i fuochi di Capodanno.
E tra una chiacchiera e l’altra si conobbero, si divertirono, e un po’ si innamorarono.
La prima cena fu alquanto silenziosa e a base di zuppa cucinata a fuoco lento su un fornelletto da viaggio. La ragazza rubò una coperta e vi si rannicchiò sul tettuccio dell’auto, col naso all’insù a osservare le luci nel cielo, e quando lui la raggiunse con una ciotola fumante lei la accettò senza fare storie e i due rimasero zitti e muti per tutto il tempo che ci volle a mangiare.
“Cerchi ancora qualcosa da sognare, lassù nel cielo?”
“No…”
“E a che pensi allora?”
“Ci pensi mai a quale sia il nostro destino, quaggiù?”
“Ogni tanto, ma il più delle volte arrivo alla conclusione che il destino non esiste e che la nostra vita la possiamo comandare soltanto noi, e che non è affatto stata già scritta da nessuna parte.”
“E le cose che accadono senza che noi le volessimo?”
“Tipo cosa?”
“Io non mi sono scelta di dover vivere in ospedale.”
Lui ci riflesse un istante, prima di giungere a una conclusione che pose fine definitivamente alla loro prima cena assieme.
“Hai ragione, mi dispiace. Quindi tu credi che qualcuno abbia voluto fartela pagare regalandoti una vita da malata?”
“Secondo te continuerei a essere così stronza con chiunque se non avessi già trovato una risposta?”
Quella notte lei non voleva saperne di dividere il “letto” con lui. Dario aveva accuratamente abbassato i sedili posteriori e li aveva sommersi con un materasso ad aria king size sul quale ci sarebbero stati comodamente entrambi. Ma lei no, non ce lo voleva così vicino.
“Chi ci dorme lì?”
“C’è qualcun altro che vorresti invitare?”
“Io non ci dormo lì con te.”
E dunque lui finì addormentato secco sugli scomodissimi sedili anteriori, russando come tutto il reparto di geriatria messo insieme, mentre a lei toccò passare una notte del tutto insonne sbuffando bella comoda sul materasso a due piazze.
Il giorno seguente fu un giorno di silenzio. La ragazza si ritrovò a dover recuperare il sonno durante il viaggio, tutta accartocciata su se stessa sul sedile del passeggero.
A sera finirono fermi nel parcheggio di un autogrill per una sosta pipì e decisero di concludere in bellezza cenando in un localino lì affianco.
La ragazza notò il modo interessato con cui Dario attaccò i suoi occhi al corpo della cameriera decisamente troppo carina e, quando questa venne a chiedere le ordinazioni, lei diventò tutta una spina.
“Che prendete ragazzi?”
“Per me hamburger e patatine, grazie!”
“E per te?”
“Lo stesso.”, glaciale.
“Che problemi hai?”, le chiese quando la ragazza dei panini e dai begli occhi e non solo quelli si allontanò.
“Niente, me ne vado al bagno.”
E quando vi tornò, qualcosa in lei era cambiato.
“Che hai fatto agli occhi?”
“Mai sentito parlare di mascara?”
“E dov’è che l’avresti trovato?”
“L’ho rubato prima al minimarket.”
“Che cazzo hai fatto? Ma sei pazza?”
“Disse quello che è finito in tivù per aver rubato un’auto”
È diverso, okay? Io i soldi per l’auto non li avevo. Poi perché mai te lo sei dovuta mettere, eh?”
“Per essere come quella.”, indicando la signorina delle ordinazioni.
“E cos’avrebbe quella che tu non hai?”
È bella.”
“E…”
“E niente, mi piacerebbe essere come lei, tutto qui”
“Anche a me piacerebbe essere come The Rock, hai presente?”
“Di cosa stai parlando?”
“Di cose impossibili che non accadranno mai.”
“Non potrò mai essere bella?? Quanto devi essere stronzo?”
Lei lo piantò in asso, ferita nel profondo, e si rifugiò in auto.
Non c’era bisogno di sottolineare sempre l’evidenza di ogni cosa. Come quel giorno che le parlò del libro e le mise davanti agli occhi la sua solitudine. Non c’era affatto bisogno di doverle ricordare ogni aspetto negativo della sua vita.
“Senti, scusa, non volevo… Non volevo affatto dirti che non sei carina o che non lo sarai mai, stavo solo dicendo che tu sei tu e quella ragazza è quella ragazza. Non potrai mai essere come lei perché
siete diverse in partenza, ma ciò non esclude il fatto che anche tu sia bella a modo tuo, in un modo che una come lei o qualsiasi altra donna del pianeta non potrà mai essere.”
“Lo dici solo per farmi sentire meglio?”
“No, lo dico perché lo penso, okay? E mi dispiace se ho fatto o detto qualcosa che ti abbia ferita. A volte sono un idiota, come la triste uscita che ho avuto ieri sera.”
“Ok.”
“Tutto a posto? Tregua? Ci mettiamo a dormire?”
“Ok.”
E dunque lei finì bella comoda sul materasso doppio, inondando il cuscino con le sue lacrime silenziose, mentre lui finì per starsene sveglio sdraiato scomodamente sui sedili anteriori a chiedersi com’è che non riuscisse mai a combinarne una giusta.
Il giorno seguente lui, si vedeva, era stanco morto, con delle enormi borse sotto agli occhi e una strana incapacità alla guida. Perennemente in preda a colpi di sonno, a un tratto finì per sbandare contro qualcosa.
Stava andando tutto bene, silenzio ed imbarazzo a parte, finché…
“ODDIO STA’ ATTENTOOO!!”
Ma lui quella volpe la tirò sotto lo stesso e quando scesero dall’auto per capire l’entità del danno capirono che ormai non c’era più niente da fare.
“Stasera ci fermiamo in un motel, okay?”, lui lo disse d’un fiato e lei acconsentì in silenzio.
“C’è un letto solo?”
“Non ti mangio, sta’ tranquilla. Sono troppo stanco e agitato per fare qualsiasi cosa.”
Alla ragazza quella risposta fece quasi male. Anche lei era ancora frastornata, ma non era così che doveva continuare ad andare tra di loro, e lui non riusciva a capirlo.
Decise di metterlo alla prova: uscì dal bagno con solo un asciugamano intorno al corpo, lui intento a guardare la tivù, lei mezza nuda a chiedergli se avesse dei vestiti puliti da prestarle.
Dario glieli passò alla velocità della luce, visibilmente a disagio, ma non cercò affatto di approfittare della situazione. Fu così che lei decise di farsi vedere nuovamente con indosso solo la sua t-shirt mille volte più grande della propria.
“I pantaloni non erano di tuo gradimento?”
“Sono troppo grandi.”
“Forse dovresti mangiare un po’ di più.”
La ragazza si mise sul letto al suo fianco e fissò il suo sguardo su di lui.
“Perché non mi tocchi?”
“Non credo tu voglia che io lo faccia.”
“E com’è che lo credi?”
“Perché fai di tutto per mantenere le distanze e io non riesco a capirti e forse non ci riuscirei nemmeno se ci provassi per anni.”
“Scusa…”
“Sei difficile, sai? Chiudi sempre tutti fuori ed è un casino riuscire a capire se ti fa piacere stare o meno con qualcuno. Perché lo fai? Di cosa hai paura?”
“Non lo so… Di essere delusa, forse.”
“E non pensi che invece potrebbe succedere anche qualcosa di bello?”
“E tra noi potrebbe?”
I due si guardarono, entrambi su un lato diverso del letto, ma nessuno dei due fece nulla per avvicinarsi di più. Si limitarono a mantenere la distanza e a capirsi con gli occhi.
“Ce l’hai con me?”, chiese lei, incapace di formulare altre parole.
“No, sono solo stanco. Ti toccherei, davvero. Ti avrei toccata fin dal primo giorno, ma oggi non ci riesco, oggi non mi sento in pace con me stesso e non vorrei fare del male a nessun altro essere vivente.”.
“Non è stata colpa tua per quella volpe. Si è buttata sotto l’auto e non potevi farci niente. È una di quelle cose che nella vita accadono contro il nostro volere, forse scritte per noi da qualche parte. Forse è stato semplicemente destino.”
“L’ho ammazzata.”
“Così come potresti ammazzare qualcuno con le parole.”
“A che ti riferisci?”
“Alla morte che molto spesso ci tocca vivere, quella morte che non ti uccide ma che ti lascia un’enorme ferita aperta che devi abituarti a portarti appresso per il resto dei tuoi giorni, continuando a pensare a quanto sarebbe stato meglio, in quell’occasione, morire per davvero.”
“E tu ne hai, di queste ferite?”
“Troppe.”
“E io c’entro qualcosa?”
“Forse.”
Dario si voltò a guardarla e nel vederla davanti a sé, così piccola e così grande allo stesso tempo, infantile ma saggia, spettinata ma bella, vuota ma piena di voglia di vivere, le si avvicinò, le cinse il corpo con le sue braccia e le sfiorò la fronte con un bacio colmo di dolcezza.
Per lei quell’attimo fu tutto ciò che aspettava. Qualcosa da vivere, e non più soltanto da sognare.
“Puoi chiamarmi Alice, comunque.”, e i due si addormentarono così, consapevoli di aver finalmente trovato ristoro dalle loro continue morti interiori.
Il giorno seguente era il giorno dedicato all’arrivo. Il mare, i botti di Capodanno e il nuovo anno erano tutti lì ad aspettarli, a pochissimi chilometri da loro.
Alice, a neanche quindici minuti dalla meta, ormai all’imbrunire, ebbe un sussulto.
“Ferma l’auto, ti prego”
“Che hai, stai male?”
“Non ci voglio arrivare, non ancora.”
“Come? Ma abbiamo fatto tutta questa strada!”
“Sì, ma non mi sento ancora pronta. Hai presente quando aspetti una cosa da una vita e poi quando sei lì lì per ottenerla pensi a quanto sia stata intensa tutta quell’attesa e ti rendi conto di non essertela goduta appieno?”
“Non capisco…”
“Sento che ci sono ancora mille cose da fare prima di arrivare.”
“Tra poco farà buio, Alice. E stasera gli alberghi saranno pieni zeppi. Dove pensi che potremmo andare, eh?”
“Da nessuna parte. Stiamo qui.”
A quegli occhi feriti, furbi ma innocenti, come di una volpe che non riesce mai a trovare una tregua alle sue lotte interiori, lui non sapeva più dire di no. I due finirono abbracciati come la notte precedente su quel materasso king size che adesso Alice era disposta a condividere con qualcuno.
I baci sulla fronte si spostarono sulle labbra.
Lui le insegnò cosa fosse l’amore, per quanto anche lui potesse conoscerlo.
Forse si amarono e forse anche un po’ troppo.
I fuochi d’artificio spararono alti nel cielo e la gente del paese inneggiava e schiamazzava felice in lontananza sulla spiaggia.
Ma loro rimasero lì tutta la notte, a lato della strada, a pochissimi chilometri dalla meta, consapevoli di essere rimasti soli assieme.
Ed entrambi passarono la notte belli comodi a tenersi svegli a vicenda a suon di baci, su quel fantastico materasso adagiato sui sedili posteriori.
“Ehi, ti ho preparato la colazione”
Era mattina. Dario si avvicinò per darle un bacio affettuoso, un bacio normale, di quelli che un innamorato non vedrebbe l’ora di scambiare con la ragazza che ha amato per una notte intera, ma Alice a quel saluto venne meno, si scansò frettolosa e si girò dall’altra parte.
“Non ho fame.”
“Che cos’hai? Che ti ho fatto?”
“Niente, andiamo verso il mare.”
Ma l’auto non volle saperne assolutamente niente di partire.
“Che succede?”
“Non lo so, non parte.”
“Sapresti capire perché?”
“Ci provo…”
Alice rimase seduta al posto del passeggero, l’irrequietudine fatta a persona. Lui, completamente disorientato dalla situazione in generale, optò per concentrare i pensieri sulla ricerca di una soluzione al di sotto di quel cofano indiavolato, costringendosi a mantenere la calma, ma uscendone del tutto sconsolato.
“Brutte notizie, Alice: il motore dev’essersi fuso. L’auto non partirà più”
“Ma che cazzo dici? Non puoi ripararla?”
Ora erano entrambi sul ciglio della strada, e la loro tregua era ormai finita.
“Ma sei scema? Come pensi che ci riesca, col pensiero?”
“E che ne so! Mi ci hai portata tu fino a qui! È tutta colpa tua! L’hai rubata tu questa stupida auto, quindi adesso trovi anche la soluzione a tutto questo!”
“L’unica soluzione è andare a chiedere aiuto a qualcuno e non appena ci chiederanno chi siamo chiameranno la polizia, io finirò in prigione e tu verrai rispedita dritta in ospedale! È questo che vuoi?”
“Non fare finta che ti possa interessare ciò che voglio, ora! Me l’hai mai chiesto se ci volessi venire a fare questo stupido viaggio con te?”
“Ma di cosa stai parlando? Avresti anche potuto dire di no! Non ti ha obbligata nessuno!”
“Stai zitto, per l’amor del cielo!”
“Non mi prendere per il culo! Non ti ho obbligata io a baciarmi ieri notte e a fare l’amore con me!”
“Lasciami in pace!”
“Smettila di fare la bambina, Alice! Non sei l’unica a stare male in questo mondo, lo sai? Ci hai mai pensato, eh? La vita è difficile per tutti! Lo sai che siamo tutti infelici? È solo che le persone normali imparano ad accettarlo e mascherano il proprio dolore! Tu invece sei solo in grado di rispondere di merda, incazzarti con chiunque e odiare tutti! Ma non sei affatto l’unica al mondo a dover sopportare quelle ferite mortali di cui parli tanto, quindi smettila di sentirti così unica perché sei solo uguale a tutti gli altri!”
“Basta!”
“Quel tuo muro che ti costruisci attorno un giorno ti ammazzerà per davvero!”
“VATTENE VIAAA!!”
E lui quel giorno se ne andò sul serio.
Lei lo guardò allontanarsi all’orizzonte e non fece nulla per fermarlo o andarselo a riprendere.
Forse, tutta quella storia era già stata scritta per entrambi.
Lui la lasciò così, triste e sola, innamorata e delusa, affamata e senza cibo, ad aspettare qualsiasi cosa sul ciglio della strada.
Il terzo giorno lei riaprì il suo diario e si raccontò tutta la storia, per non dimenticare.
Poi a un tratto il mondo si fece nero. Una di quelle crisi che ti colpiscono i polmoni si impadronì di lei, ma stavolta la cordicella del campanello d’allarme era davvero troppo lontana, e da quel momento Alice non si ricordò più nulla.
Qualche giorno più tardi, la ragazzina si risvegliò di nuovo sola, di nuovo nel suo letto d’ospedale.
Teresa le stava cambiando la sacca della flebo attaccata al suo braccio mentre alla tivù una giornalista commentava le notizie dell’ultima ora.
“Per quanto riguarda il furto d’auto delle scorse settimane sono stati riesaminati i video delle telecamere di sorveglianza ed è stato appurato che non si trattava di un ragazzo, bensì di una ragazza, che non potrà essere processata in quanto in cura in un ospedale psichiatrico. I medici si scusano per l’accaduto e si impegnano a tenerla sotto sorveglianza…”
L’infermiera si affrettò a spegnere quel maledetto televisore.
“Che ci faccio qui? Dov’è Dario?”
“Non so di cosa tu stia parlando, piccola mia. Hai perso i sensi, ti abbiamo trovata stamattina congelata sul tetto. Ma che ci facevi lassù?”
“Sul tetto?… E Dario?”
“Chi sarebbe questo Dario, tesoro?”
“Il ragazzo ai lavori sociali… Dov’è?”
“Lavori sociali? Non c’è mai stato nessuno qui a fare dei lavori sociali!”
“No, non è possibile, passava di qui tutte le mattine e-”
“Forse dovresti smetterla di leggere tutte quelle storie assurde, Giusy. Ti fanno impazzire!”
Giusy? L’aveva davvero chiamata Giusy?! Cosa stava succedendo?
Teresa le accarezzò il volto in modo gentile prima di lasciarla nuovamente sola.
La ragazza si voltò a osservare il punto indicato poco prima dall’infermiera: sul suo comodino era poggiato un libro intitolato “Raccolta di poesie per chi si sente solo”.
In lontananza si sentì una strana voce domandare: “Ci ha creduto?”.
Qualcosa non andava.
Il mondo non andava.
La ragazza prese il suo diario e vi trovò raccontata tutta quella storia, ma non poteva essere stata soltanto frutto della sua immaginazione, no? Lei l’aveva vissuta per davvero, sapeva di averlo fatto. Non poteva essere stato solo un semplice sogno.
Il loro incontro era stato scritto dal destino e forse, alla fine, quell’infermiera e la giornalista alla tivù le stavano raccontando solo un mucchio di frottole per costringerla a smettere di pensarci.
Dario era riuscito nel suo intento, no? Si era ingraziato persino lei, come le aveva detto una volta, e ormai era arrivato il momento per lui di andarsene per sempre da quell’ospedale. Era andata semplicemente così. Non poteva esserci altra spiegazione.
Alice, forse detta Giusy, finì per chiedersi se quel giorno non si fossero svegliati tutti mezzi matti, non rendendosi mai conto che forse, a questo mondo, non c’era mai stato nessuno più pazzo di lei.

6 Risposte a “Chiamatemi Alice”

  1. Davvero imbarazzante che abbiate premiato un racconto come questo. Oltre ad essere banale e noioso è pieno di errori, grammaticali e di punteggiatura. Per citarne un paio:
    “lei sapeva di per certo”
    “Lo stesso.”. Il doppio punto è una costante in questo racconto
    “bei occhi” anziché begli occhi come è corretto dire. Errori quindi anche piuttosto evidenti da rilevare.
    Ho letto anche le poesie che avete premiato e le ho trovate alquanto banali, senza utilizzo di figure retoriche ma, mentre per quanto concerne la poesia si può tirare in ballo il gusto personale, non è assolutamente accettabile che vengano premiati racconti scritti male. Non è giusto nei confronti di chi ha partecipato con fiducia inviando testi validi e ben scritti. Sarebbe interessante capire con quale criterio avete proceduto alla selezione e chi se ne è occupato. E’ la prima volta che mi ritrovo a dissentire totalmente dalle scelte in un concorso perché solitamente vengono premiati lavori validi. In questo caso mi è impossibile tacere e ho delle perplessità sulla serietà di questo concorso.

    1. Gentile lettore, per correttezza tacerò il suo nome (che peraltro conosco benissimo desumendolo dalla sua mail) visto che Lei ha preferito celare dietro l’anonimato accuse pesanti e, queste sì, davvero imbarazzanti. E’ la prima volta, e sono quasi trent’anni che organizzo concorsi letterari, che trovo concorrenti che per sfogare la propria amarezza per non essere stati inseriti fra i vincitori accusano l’organizzazione del concorso, mettendo addirittura in dubbio la serietà dello stesso. E’ una cosa molto triste per chi agisce in questo modo, evidentemente mosso non dalla passione per l’arte, quale è la scrittura, ma solo dalla bramosia di una vittoria. Le faccio notare che il suo racconto è giunto fra i finalisti e, se proprio lo vuole sapere, appena a ridosso dei premiati. Se vuole sapere i motivi della nostra scelta mi può scrivere in privato e le darò tutte le delucidazioni possibili. Cordialmente. Edoardo Ferrario, presidente della Giuria Clepsamia 2019.

      1. Gentile editore non capisco perché dovrebbe essere un problema dire il mio nome, mi chiamo Stefania Tosi 😅 dovrei nascondermi da cosa precisamente? Io il commento che ho scritto lo posso riportare tranquillamente anche su Facebook con il mio account. Stranamente lei ha considerato l’esporre le mie opinioni, peraltro condivise da altri utenti, come accuse. È curiosa questa cosa perché io ho solo espresso perplessità che non sono state chiarite. Lei piuttosto, senza sapere nulla di me, mi accusa di bramosia di vittoria, addirittura! No guardi, non è proprio questo, ho partecipato a diversi concorsi, di cui vari vinti, e mai mi è capitato di esprimere il mio dissenso perché il giudizio della giuria è inappellabile. In questo caso mi sembra chiaro – visti i grossolani errori ortografici che non farebbe neanche un bambino delle elementari – che la delusione è tanta. Si partecipa pensando di essere equamente e saggiamente valutati. So bene che il mio racconto era tra i finalisti e pensare che avete preferito un testo come questo è per me incomprensibile. Se qualcuno vince perché scrive bene non posso che fargli i complimenti, ma non è questo il caso ed è normale e giusto chiedersi come è stato possibile che abbiate premiato chi non conosce bene la lingua in cui scrive. Mi pare fondamentale per chi ambisce a pubblicare. Detto ciò sinceramente, vista anche la sua risposta, preferirei che il mio racconto non venisse inserito nell’antologia. Grazie per l’attenzione.
        P. S. Nella vita si può sbagliare anche dopo 30 anni….

  2. Capisco che in un concorso bisogna pur premiare, ma arrivare a un quarto ex aequo significa che molti lavori presentati sono meritevoli. Ma, indipendentemente dagli errori di grammatica, non mi sembra che sia il caso di questo racconto, con i suoi dialoghi banali, infantili, da romanzo harmony, pieni di ‘cazzi’ e di ‘merda’ più di una latrina pubblica. Bisogna poi far presente all’autrice che in un nanosecondo, pari a un miliardesimo di secondo, neanche un piccolissimo peto si riesce a fare.

    1. Gentile Orestefrancesco. Anche per lei vale la risposta data a “fanitt”. Capisco la sua frustrazione visto che il suo racconto non è nemmeno giunto in finale. E già aveva pontificato a proposito delle poesie. Mi permetto di dare un consiglio: è bene che ciascuno pensi alla propria di scrittura e a come migliorarsi. Lo faceva anche un certo Alessandro Manzoni, non vedo perché non lo dobbiamo fare noi.

  3. Mi sembra che la sua frase ” In questo caso mi è impossibile tacere e ho delle perplessità sulla serietà di questo concorso” non lasci adito a dubbi. Per quanto riguarda l’antologia è già impaginata e non è possibile fare modifiche.

I commenti sono chiusi.