Nina

Siamo ormai giunti quasi alla fine della pubblicazione delle opere premiate al Clepsamia 2019. Dopo tutti i saggi e le poesie mancano solo i due racconti che si sono aggiudicati ex aequo la vittoria nella Sezione Narrativa. Incominciamo oggi con il racconto Nina di Annamaria D’Urso.

NINA

I tre piani di scale incominciavano a pesarle, e con le borse della spesa poi diventavano un calvario, ogni pianerottolo una sosta, come le stazioni della via crucis. Cazzo come desiderava l’ascensore! “Ma tu lo sapevi” si ripeteva “quando compraste il nido dei vostri sogni!”. Già, sogghignò amaramente, i nostri sogni.

Erano passati quasi vent’anni da allora, ma Nina li sentiva tutti. Ogni giorno, ogni attimo erano lì, nella sua mente. Lei ed Omar, giovani e innamorati.

Si erano scontrati in una via del centro, un pomeriggio piovoso di novembre, fradici di pioggia. Scusarsi, incrociare il suo sguardo e perdersi nei suoi occhi grigi fu un attimo. Dopo tre mesi varcavano la soglia del loro piccolo appartamento, felici. Ricordava bene quei giorni, quando dopo il lavoro faceva le scale a due a due per la fretta di rivederlo, apriva la porta col fiatone buttando all’aria la borsa e inciampando nelle scarpe mentre le faceva volare via. Sapeva già che lui era lì ad aspettarla, seduto sul divano, nella penombra, bello e riposato, e che non vedeva l’ora di baciarla e accarezzarla, e penetrarla. Il tempo di avvicinarsi e veniva travolta dal profumo del suo dopobarba e dall’aroma di pesca della sua pelle, e la sua voce poi… sentirla ed un istante dopo sciogliersi in un vortice di desiderio che annullava il tempo e lo spazio! Era la quinta dimensione, era come fluttuare in assenza di gravità, era l’Aleph, era… Poi, lui accendeva la luce, e la sigaretta, e tutto ritornava al suo posto, le pareti e il soffitto, i mobili ed i soprammobili, il traffico in strada e lo stereo dei vicini, e la sua vita.

Erano giorni indimenticabili, le sembrava che tutto si incastrasse alla perfezione: il lavoro, gli amplessi, la spesa, gli elettrodomestici funzionanti, le cene intime in casa e i film in televisione la sera. Giornate che scivolavano così, forse un po’ monotone ma così tranquille! Non avrebbe potuto desiderare altro. Serate fuori casa no, quelle non potevano permettersele, lo stipendio di Nina non era mai abbastanza. A dire il vero a volte la sera, sul tardi, lui scendeva per raggiungere gli amici al bar. Del resto, dopo una giornata intera in casa doveva pur prendere un po’ d’aria. Lei no, restava davanti alla TV, era troppo stanca per uscire.

Poi, quella sera Nina tornò a casa e, catapultandosi sul divano dove lui indugiava da ore, gli sussurrò all’orecchio: “Io, credo di essere incinta!” La sua risposta fu come una scudisciata per lei: “Credi?! O ne sei certa?!” Non fu tanto la frase in sé a stordirla, ma il suo tono. In un attimo lo sentì distante miglia e miglia. Omar la allontanò da sé, posò la lattina di birra che aveva in mano e si accese una sigaretta. Restarono in silenzio per alcuni minuti, Nina sentiva tutto il peso della tensione, un macigno si era frapposto tra di loro, e lei non ne capiva il motivo. Sì, è vero, in tutto quel tempo non avevano mai accennato ad una eventualità del genere, ed in realtà non aveva alcuna idea di cosa ne pensasse lui dei bambini. Ma per lei era così naturale il desiderio di un concepimento! Si amavano, l’intesa fra di loro era perfetta, non litigavano mai, lei afferrava sempre al volo i suoi desideri e lui la lasciava sempre parlare senza contraddirla, quando lei la mattina presto si preparava per andare al lavoro lo faceva nel massimo silenzio per non svegliarlo, ed allo stesso modo faceva lui quando rientrava alle prime luci dell’alba. Veramente, se proprio doveva essere sincera, non sempre Omar riusciva a non far rumore, a volte barcollava un po’ ed urtava quasi tutti i mobili, forse a causa del buio della stanza.

“Ripeto, Nina, tu sei certa di essere incinta?” Il suo tono perentorio la riportò sul divano, cincischiò un “ho fatto il test” ed istintivamente si allontanò un po’, non sapeva perché, o forse sì, il suo sguardo la spaventò, per un istante pensò volesse colpirla, ma poi scacciò quel pensiero orribile! No no, non Omar, lui non l’avrebbe mai toccata! Come poteva pensare una cosa del genere? Era sempre così attento e premuroso, parlava poco, è vero, spesso era un po’ scontroso però sapeva sempre come accarezzarla e come farla godere. Forse fu l’espressione impaurita di Nina che lo trattenne dal continuare in quel modo brusco, e addolcendosi un po’ continuò: “Lo sai vero che non possiamo permettercelo? Lo sai vero che non riesco a trovare lavoro e col tuo stipendio a stento andiamo avanti?” Aveva parlato come un padre che redarguisce la bambina capricciosa, senza urlare ma con voce decisa e categorica. Lei rimase talmente imbambolata che non si accorse che subito dopo aver profferito tali parole si era alzato, aveva preso sigarette e chiavi di casa ed era uscito. Il rumore della porta che sbatteva la ridestò. Certo, come al solito aveva ragione, certo, riuscivano a stento a soddisfare i bisogni essenziali, bollette, cibo, alcool, fumo, ma come avrebbero potuto andare avanti con una creatura! Certo, lei avrebbe potuto continuare a lavorare anche col pancione, perché no, tante donne lo fanno; però, quando dopo il parto, per forza di cose sarebbe stata costretta a restare del tempo a casa, sarebbe stata pagata lo stesso? Oddio! E se poi il titolare l’avesse addirittura licenziata?! Più rifletteva e più si convinceva che il ragionamento di Omar era sensato, come potevano? Lui, poverino, non riusciva a trovare una occupazione; non è che non ci provasse, ma era sfortunato, c’era sempre qualcosa che non andava nelle proposte di lavoro che gli offrivano, non era colpa sua: o troppo lontano da casa, o troppo faticoso, oppure di livello troppo basso; lui aveva grandi ambizioni ed anche capacità che, chissà perché, ancora nessuno gli riconosceva.

Si arrese. Dopo tre settimane il suo utero fu ripulito.

Omar fu molto carino ed affettuoso, l’accompagnò in ospedale e in sala d’attesa le tenne la mano tutto il tempo sorridendole sempre. Come avrebbe mai potuto fare senza di lui!

Restò a casa per alcuni giorni che passarono insieme, per lo più davanti alla TV in una atmosfera quieta, un po’ sospesa; o forse era lei a sentirsi strana, come a mezz’aria, in una specie di limbo… Non ricordava bene quali fossero i suoi pensieri in quel periodo, e se provasse emozioni; guardava con la stessa indifferenza film, telegiornali e trasmissioni demenziali.

Poi tutto riprese invariato, tornò a svegliarsi all’alba e a vestirsi in silenzio, lavoro, supermercato, ritorno a casa. Tutto perfettamente scandito, come un metronomo. Fino a quella sera di novembre. Se ricordava bene era un venerdì, c’era la fila alle casse del supermercato e pioveva a dirotto. Niente ombrello, la borsa della spesa che si rompeva e mele, pomodori e lattine che rotolavano nelle pozzanghere accompagnate dalle sue bestemmie e la corsa a casa bagnata fradicia. Stanca ed ansimante aprì la porta di casa e prima che potesse richiuderla un manrovescio la colpì in pieno volto. Non capì subito cosa fosse, si ritrovò scaraventata a terra tra l’attaccapanni ed il portaombrelli, cadde malamente sulla spalla, sentì un dolore acuto ma non ebbe il tempo di riprendersi perché il fiato impregnato di birra di Omar le frustò il viso mentre lui urlava: “Dove sei stata? Che cazzo di fine hai fatto?” No, non poteva essere il suo Omar, era certa, non poteva essere lui! Vivevano insieme da tanto, e mai aveva alzato così la voce! Ebbe paura e balbettò qualcosa tipo “la folla la pioggia… scusa non accadrà più”. Lui placò un po’ la sua ira, allungò la mano e l’aiutò ad alzarsi. Nina raccolse le borse della spesa e andò in cucina, frastornata e con la guancia e la spalla doloranti. Non capiva, non capiva cosa avesse sbagliato, forse avrebbe dovuto telefonargli, avvisarlo che avrebbe tardato! Era pur vero che qualche giorno addietro, non ricordava precisamente quando, più o meno dieci giorni prima, mentre era ferma in strada a parlare da pochi minuti col vicino di casa, vide che Omar la osservava da dietro i vetri della finestra con espressione truce, tanto che lei si affrettò a salutare e a guadagnare le scale di casa. Quando entrò lui l’accolse in modo gelido senza profferir parola, ma lei pensò fosse solo una sua sensazione e non ci fece caso più di tanto. Ora però quell’episodio le tornò alla mente, ma continuò a considerarlo insignificante e lo scacciò di nuovo.

Il mattino dopo il livido si allungava quasi all’occhio, si truccò velocemente cercando di mascherarlo, le seccava molto che si vedesse, anche perché, ne era certa, era stato solo un avvenimento occasionale e di sicuro non sarebbe più accaduto. Infatti quella notte, nel pieno dell’orgasmo, lui le giurò e spergiurò che l’amava perdutamente e che era stato un momento di follia e che non sapeva cosa gli fosse preso e che era terrorizzato all’idea di perderla…

Nina gli credette.

Di nuovo sveglia alle sei, lavoro, spesa, ritorno a casa, letto da rifare, panni da lavare, cena da cucinare. Ora non correva più per le scale, sapeva già che lui era lì, steso sul divano, con le lattine di birra che aumentavano ogni giorno di più. Sentiva il puzzo di fumo e di alcool appena apriva la porta di casa. Al suo “ciao” Omar ora non rispondeva più, emetteva solo una specie di grugnito senza neanche alzare lo sguardo. Ma, strano, non le dispiaceva che lui restasse lì in quella sorta di semi-incoscienza alcolica, tremava all’idea che le si avvicinasse, sentiva che in quei momenti non era in sé. Lei andava direttamente in cucina, cercando disperatamente di zittire pensieri e sensazioni facendo meccanicamente i movimenti di sempre, gli stessi di tutti i giorni: sistemare barattoli e verdure, lavare piatti pentole e stoviglie della sera prima, preparare la cena, mettere in moto la lavatrice… con quel groppo alla gola che le annebbiava la vista, e che lei ricacciava continuamente indietro.

Era ancora perdutamente innamorata, e terrorizzata. Tremava se la sera, al ritorno dal lavoro, un qualsiasi contrattempo le impedisse di tornare a casa in orario oppure se dimenticava di comprare qualcosa; sempre più spesso Omar si trasformava, e non c’erano occhiali da sole o fondo tinta che potessero coprire l’impronta delle sue dite sul viso di Nina.

Ora lui usciva tutte le sere, lei non sapeva dove passasse la notte, né a che ora tornasse, ma quando sentiva chiudere la porta di casa tirava un sospiro di sollievo, per qualche ora non avrebbe sentito lo strascicare delle sue ciabatte sul pavimento, e non era costretta a restare col fiato sospeso cercando di capire la direzione dei suoi passi. A volte lo sentiva avvicinarsi, avvertiva la sua presenza dietro di sé e l’odore speziato del suo dopobarba misto a quello pungente di alcool del suo alito. In quei momenti non aveva il coraggio di voltarsi, non sapeva cosa sarebbe arrivato sul suo viso, se uno schiaffo o un accenno di carezza. Lui avvertiva la tensione e sembrava che questa cosa lo eccitasse enormemente, come un animale davanti alla preda si rendeva conto del suo dominio. Nina non osava muoversi, chiudeva gli occhi ed aspettava che finisse, qualunque cosa fosse, amplesso o percosse. Ormai bastava un motivo qualsiasi, anche futile, un silenzio o una parola di troppo, perché Omar perdesse completamente la ragione, la sua mente era sempre più annebbiata, anche quando non beveva, e allora urlava urlava urlava, e allora lei si rincantucciava in un angolo tappandosi le orecchie e serrandosi il viso tra le braccia, ma lui l’afferrava furioso e le sputava addosso la sua rabbia. “Smettila ti prego smettila!” lei farfugliava sperando che lui la sentisse, e qualche volta accadeva che la sentisse, e che in un barlume di lucidità, indietreggiasse barcollando, e zittisse. Il silenzio improvviso però la spaventava ancora di più, quindi lei restava racchiusa, nella atroce attesa di qualcosa che la colpisse. Perché le mani di Omar erano grosse, e pesanti.

Nina era esausta, svuotata, non ricordava più il sapore di un caffè in compagnia di un’amica, il piacere di abbandonarsi su una panchina ad oziare e ad osservare il resto del mondo, le mancava il buio di una sala di cinema, il passeggiare lento tra gli scaffali di una libreria, le risate soffocate durante le lezioni in facoltà… Già, l’università, quand’è che aveva deciso di mollare, e perché cazzo, perché?! Come aveva fatto a ridursi così, avvizzita, scolorita, un lavoro sottopagato in una triste tintoria, ore e ore a stirare mentre lei, l’altra Nina, giovane e piena di progetti ed aspirazioni si allontanava sempre più. I suoi libri e i suoi appunti giacevano, dimenticati ormai da anni, in scatoloni abbandonati in un angolo della casa. Stupida, era proprio stupida! Come era potuto accadere che proprio lei si trovasse invischiata in una ragnatela del genere? Cazzo Nina, svegliati! Fa’ qualcosa! Una qualsiasi! Parla con qualcuno, chiedi aiuto! C’è quella signora con quel viso così dolce che viene sempre in negozio e si ferma a chiacchierare, ecco, confidati con lei! Oppure no, la polizia, vai alla polizia! Anzi no Nina, fuggi, scappa il più lontano possibile! Non c’era sera che uscendo da lavoro non ci pensasse, andare via, salire su un treno, uno qualsiasi, senza bagaglio, lasciare Omar la casa gli oggetti i ricordi e ricominciare. Poteva farcela, doveva farcela! Raccogliere tutti i sogni di vent’anni prima, e i cocci, e riacciuffare la sua vita!

E invece, come tutte le sere, andava alla fermata del tram e tornava a casa.

Poi, quella notte, Omar tornò prima del solito.

Nina sentì i suoi passi per le scale e cincischiare un bel po’ alla serratura prima che riuscisse ad aprire la porta di casa. Guardò l’orologio, non era ancora mezzanotte. Strano, pensò, doveva essere successo qualcosa, tornava sempre alle prime luci dell’alba! Incominciò ad agitarsi, mille pensieri le si affollarono nella testa, che fare? Forse se fingeva di dormire lui si sarebbe intenerito, forse, e non l’avrebbe toccata, forse… o sarebbe stato meglio chiudersi in bagno? No, meglio di no, lo avrebbe istigato di più! Dalla finestra semiaperta un brandello di luce lunare si proiettava sull’uscio di casa, lui era ancora fuori, Nina contò tutti i suoi tentativi per riuscire ad infilare la chiave nella toppa: uno due tre… undici, quando sentì lo scatto della serratura si irrigidì trattenendo il respiro.

Omar entrò puntando deciso verso di lei, Nina fece appena in tempo a vedere i suoi occhi gelidi e qualcosa di lucente nella mano, ma non fece in tempo a scappare, scivolò giù dal letto nel tentativo di infilarvisi sotto per un precario e vano riparo ma una tempesta di schiaffi e pugni la investì, tutta la furia del mondo si abbattè su di lei. “Perché?” biascicò, una voce rabbiosa ruggì qualcosa che lei afferrò a tratti “troia… cagna… parlavi… chi era…” subito dopo sentì un oggetto che le squarciava la stoffa del pigiama, poi il rumore di un altro strappo, infine un bruciore lancinante alla mano le tolse il respiro, e allora il tempo rallentò, come in una sequenza cinematografica vide il sangue schizzare sulla camicia di Omar, alzò la testa ed incrociò il suo sguardo furioso, tentò di ripetere “perché?” ma non riuscì ad emettere alcun suono, poi il buio.

Si risvegliò che era giorno inoltrato, era distesa sul divano, provò ad alzarsi ma non c’era centimetro del suo corpo che non le dolesse, si guardò intorno, c’era sangue dappertutto, per terra sulle sue mani sulle gambe sulle braccia, il pigiama ne era inzuppato. Le ci volle un po’ di tempo per ricucire il ricordo sfilacciato della notte precedente. La fitta alla mano le proiettò alcune immagini, dei flash back accecanti ed intermittenti, senza una sequenza continua.

Omar non c’era, ne fu contenta. Si alzò con fatica e andò in bagno, disinfettò la mano e si lasciò scivolare il getto della doccia lungo il corpo, lentamente.

Questo era successo dieci giorni prima, pensava Nina salendo i tre piani di scale che incominciavano seriamente a pesarle ora, e con le borse della spesa poi diventavano un calvario, ogni pianerottolo una sosta, come le stazioni della via crucis. Cazzo come desiderava l’ascensore!

Si fermò davanti alla porta di casa frugando nella borsa per cercare le chiavi, sapeva già che Omar non sarebbe stato lì ad aspettarla sul divano, era da quella sera di dieci giorni prima che non aveva più sue notizie. Entrando non sentì come di consueto odore di fumo e di alcool, ma un tanfo strano, acre, penetrante, come di qualcosa andata a male, ma non era spazzatura. Era da un po’ di giorni che sentiva quel fetore, ma anche questa volta non ci fece caso più di tanto. Per un po’ fissò la porta chiusa della camera da letto, ma anche oggi non aveva nessuna voglia di aprirla.

Spalancò la finestra del soggiorno, andò in cucina e incominciò a prepararsi la cena.

3 Risposte a “Nina”

  1. Non si può scrivere di violenza sulle donne parlando a vanvera. Gli schiaffi, per chi li tira, sono sempre giustificati da azioni ritenute colpevoli. Qui invece la violenza è gratuita, senza un vero motivo. Dell’uomo-maschio possiamo dire tutto quello che ci passa per la testa, ma così si cade nell’assurdo, nella farsa, nel ridicolo!

  2. orestefrancesco, qui chi cade, non solo nel ridicolo, ma anche nello stravolgimento della realtà, è lei. Vada a farsi un giro per i centri a sostegno della violenza sulle donne e forse si abbasserà la sua spocchiosa voglia di criticare tutto e tutti. Oltretutto si evince che lei il racconto non l’ha letto attentamente altrimenti avrebbe capito che il motivo psicologico c’era, eccome. Anche dall’altro commento (su “Sara”) si evince che lei si ritiene depositario di tutte le verità, ma anche se lei fosse uno psichiatra-psicoterapeuta – anzi a maggior ragione se lo fosse – non si azzarderebbe a scrivere certe cose. E mi permetto di darle un consiglio: analizzi la sua latente (ma non troppo) giustificazione della violenza sulle donne.

    1. Edoardo, Edoardo! Io esprimo il mio parere per quello che capisco leggendo e non ho bisogno, per esprimerlo, del permesso di nessuno! Soprattutto di chi vuole giustificare a tutti i costi un giudizio di merito.

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