Una zattera di nome Gaia

Continuiamo la pubblicazione dei migliori racconti per ragazze e ragazzi, la nuova sezione del Clepsamia. Ecco il racconto 3° classificato ex-aequo: Una zattera di nome Gaia di Carlo Pizzoni.

Una zattera di nome Gaia

Mi alzai al suono della sveglia. Attraverso la finestra vedevo il Sole fare capolino dalle montagne.

Che bello. Era il primo giorno di vacanza. La scuola era ormai un ricordo, mi attendavano tre fantastici mesi di ozio. Mi recai in bagno e mi impegnai nelle abluzioni quotidiane: occhi e orecchie. Le ascelle no. Tanto poi, tornato dalla montagna, avrei fatto la doccia. Mi vestii in tempo di record e corsi in cucina. Fui avvolto dai profumi delle leccornie preparate dalla mamma. Caffè e latte, il biscotto polenta e lacc e lo strudel. Mia madre mi sorrise dolcemente. «Mangia veloce che il nonno ti aspetta fuori». Afferrai la tazza del caffè e latte, iniziai a bere. «Ma mamma! Ancora orzo? Oramai sono grande». Lei mi guardò con gli occhi spalancati. «Hai solo dieci anni. Niente caffè, altrimenti ti agiti». «Intanto ho quasi undici anni», presi una fetta di strudel e l’ingurgitai come se non ci fosse un domani, «poi perché dovrei agitarmi?» Mamma guardò in alto e scosse la testa. Corsi a lavarmi i denti. Presi il binocolo e me lo misi a tracolla, afferrai il libro La nuova guida del Birdwatcher e lo misi nello zaino, insieme alla borraccia dell’acqua. Fuori il nonno mi aspettava con il motore acceso. La vecchia Citroën 2 CV pulsava paziente, emettendo un fumo azzurrognolo. Mi accomodai nell’auto. Il nonno era vestito per la montagna: camicione a scacchi verdi e rossi, calzoni di fustagno blu, sorretti da grandi bretelle e scarponcini rinforzati. «Automobili come questa non ne fanno più. Due cilindri raffreddati ad aria, nessun sistema elettronico. Anche se dovesse guastarsi la batteria, possiamo accenderla con la manovella». Sorrise e innestò la prima marcia con lo strano cambio sul cruscotto. «Ricorda Tommaso, quello che non c’è non può sfasciarsi!» La 2 CV iniziò a rotolare sulla strada quasi per inerzia, lentamente acquistò velocità, fino a raggiungere i ragguardevoli 80 km orari. Praticamente ci superavano anche i ciclisti in discesa, ma il nonno era fedele al motto: chi va piano va sano e va lontano. Raggiungemmo in due orette il parco del lago di Endine. Il nonno spense l’auto e cominciò a tirare fuori dal bagagliaio tutto il necessario per il picnic. La sua particolare idea di vivere la montagna, consisteva nell’osservare il panorama comodamente seduto, sorseggiando un Cuba libre. «Tommaso vieni un attimo». Uffa di nuovo il localizzatore satellitare. Guardai il nonno digrignando i denti.«Ma ti ci metti anche tu? Ho quasi undici anni!» Il nonno senza tentennamenti fissò, con una spilla, il piccolo localizzatore satellitare GPS, nel taschino della mia camicia. «Lo so che sei un ragazzo giudizioso, il GPS te lo metto per la mia sicurezza. Tua madre, se ti succedesse qualcosa, mi ucciderebbe, e non sto scherzando». Finita la vestizione, il nonno accese il suo telefono satellitare, poi iniziò a preparare il barbecue portatile. «Vai pure a caccia di osei ora». Mi allontanai sbattendo i piedi. La giornata trascorreva tranquilla. Avvistai due tordi e un beccaccino. Niente di che. Improvvisamente un uccello dai mille colori si librò nell’aria. Non mi ricordavo di aver visto nel libro un volatile simile. Sembrava un incrocio fra un pappagallo arcobaleno e un usignolo. Cantava gioioso, esibendosi in figure acrobatiche. Lo seguii con interesse. Di colpo il pennuto si bloccò in volo, come paralizzato. Poi precipitò nel boschetto alla mia destra. Corsi a soccorrerlo, sperando di riuscire a fare qualcosa. Incurante dei rovi che mi graffiavano le gambe, attraverso i pantaloni estivi, lo trovai. Era a circa dieci metri davanti a me. Si trascinava stanco sulle zampette. Accelerai l’andatura, ma lui entrò in un buco del terreno. Incurante dei pericoli, infilai la mano destra nel pertugio, ma non sentii nulla. La fenditura era molto profonda. Mi sdraiai a terra e introdussi quasi tutto il braccio. Alla fine toccai qualcosa. Una superficie fredda, che si restringeva a formare una specie di tubo. Con difficoltà riuscii ad afferrarla bene e a tirarla fuori. Era una piccola lampada a olio. Sorrisi e iniziai a pulirla dal terriccio che l’imbrattava. «Allora?» La voce alle mie spalle mi fece trasalire, lanciai un grido e mi girai. Davanti a me c’era un bambino, della mia stessa altezza. Era vestito con un sacco della spazzatura di colore nero. Dal fondo spuntava la testa, ai lati le braccia, la vita era cinta da una vecchia corda. Ai piedi calzava dei sandali fatti con pneumatici usurati. «E tu chi sei?» Balbettai impaurito. «Come chi sono? Mi chiamo Riciclino e sono il genio della lampada». «È fantastico», abbracciai il mio piccolo genio, «io sono Tommaso. Ora posso esprimere tre desideri giusto? E tu li esaudirai, non è vero?» Riciclino mi allontanò delicatamente. «Purtroppo non esaudisco desideri». Lo guardai confuso. «Allora che fai?» Riciclino si sedette. «Io rappresento la dea Gaia, la Terra. Il nostro pianeta. Che voi uomini distruggete giorno dopo giorno. Invece dovreste salvaguardalo. Non riuscite a comprendere che avvelenare l’acqua, l’aria e il cibo, vi porterà solo dei guai? Tutti dovete contribuire a mantenere in forma Gaia». Riciclino si alzò e si avvicinò minaccioso. Protesi le mani in avanti. «Che posso fare io? Sono solo un bambino di dieci anni». Mi veniva quasi da piangere. Riciclino si fermò e mi sorrise. «Lo so che sei un bambino. Appunto per questo è meglio che inizi fin da subito a rispettare Gaia. Tutti possono fare qualcosa. Vieni con me». Riciclino mi prese per mano, la sua stretta sembrava d’acciaio. «Dove mi porti?» Mormorai titubante. «Non posso esaudire desideri, ma i miei poteri mi permettono di capire gli animali e di viaggiare nel tempo e nello spazio. Se mi tieni la mano anche tu potrai farlo». Feci sì con la testa e mi sentii sprofondare, come se il terreno fosse diventato liquido. Un vortice ci risucchiò verso il basso. Strinsi la sua mano con forza. Ci ritrovammo in una radura. C’erano i dinosauri. L’uomo non era ancora stato creato. Riciclino mi guardò. «All’alba dei tempi gli animali rispettavano la natura e parlavano fra di loro». La pianura ardeva in preda a un incendio devastante. In un laghetto un brontosauro aspettava, in sicurezza, che le fiamme si estinguessero. Un piccolo gabbiano preistorico planò sul laghetto, aprì il becco dotato di denti aguzzi e prese dell’acqua. Si diresse verso l’incendio e fece cadere, sul rogo, il poco liquido che riusciva a trasportare. Così di seguito, per molte volte. Alla fine si fermò vicino al brontosauro per riprendere fiato. L’enorme bestia girò il lungo collo verso il volatile. «Certo che sei proprio buffo. Cosa pensi di fare? Spegnere l’incendio tutto da solo?» Il gabbiano lo guardò stupito. «Tu sei un erbivoro o sbaglio? Quando brucerà tutta l’erba cosa mangerai?» Dispiegò le ali, ma prima di riprendere il volo disse al brontosauro: «Io comunque faccio la mia parte!» Riciclino mi trasportò nuovamente nel tempo e nello spazio. Ci ritrovammo al di fuori di una tenda indiana. Un vecchio nativo americano fumava una lunga pipa. «Salute a te Tatanka Yotanka», disse Riciclino, «che il Grande Spirito vegli sulla tua anima». Il vecchio si girò verso di noi. «Chi mi porti inviato della Madre Terra, un viso pallido? Vieni, siedi accanto a me». Riciclino mi spinse con delicatezza verso l’indiano. Mi misi seduto al suo cospetto. «Sento che sei giovane. Il tuo animo è puro. Puoi ancora seguire la retta via. Se uccidi un bisonte, fallo solo per necessità. Ringrazialo per il suo sacrificio e utilizza ogni sua parte. La carne per mangiare. La pelle per coprirti. Noi ringraziamo sempre il fratello bisonte e ci scusiamo per averlo ucciso. I visi pallidi invece ammazzano gli animali per divertimento. Producono più del necessario. Inquinano i laghi e i fiumi. Avvelenano l’aria e la Terra. Nel nome del loro unico dio: il denaro. Prima o poi scopriranno che i soldi non si possono mangiare o bere». Il vecchio aspirò del fumo dal calumet, lo spinse fuori creando dei cerchi che, salendo, si allargavano nell’aria, fino a disperdersi. «Chissà, forse credono di portarsi i soldi nell’aldilà. Vedi mio piccolo ospite, i visi pallidi ancora non hanno compreso che il pianeta è uno. È la nostra zattera sull’oceano dell’universo. La nostra sola salvezza. Eppure c’è chi, questa zattera, la brucia e la distrugge giorno dopo giorno. Eppure non ne abbiamo un’altra di riserva. Madre natura va tutelata, almeno finché respireremo aria o berremo acqua. Va ora piccolo amico. Colui che chiamate Toro Seduto ti saluta». Riciclino mi riportò nel 2022. «Allora Tommaso, hai capito che Gaia va tutelata? Anche tu, nel tuo piccolo, puoi fare molto. Non c’è niente di più educativo che dare il buon esempio. Fai la raccolta differenziata, riutilizza tutto quello che puoi, combatti per la natura. Abbiamo solo un pianeta, non dimenticartelo». Poi mi salutò, dissolvendosi nell’aria tersa.