Niege Boren

Proseguiamo con la pubblicazione dei migliori racconti della sezione Narrativa a tema libero. Quarto classificato ex-aequo il racconto Niege Boren di Francesco Sciannarella.

Niege Boren

1944… inferno di Birkenau

«Wieviele Stücke?»
Quanti pezzi? Urlavano le SS, prima di caricarci sui loro camion. E da quell’istante non eravamo più esseri umani, ma pezzi. Solo è soltanto pezzi da gettare tra le fiamme dell’inferno.
E il mio inferno aveva un nome: Birkenau, gli inferi degli innocenti. Un luogo fatto di sofferenza, dove scontare la pena per una colpa mai commessa.
Prima di diventare un dannato numero tatuato sul braccio ero stata infermiera. Così fui assegnata al Ka-Be, abbreviazione di Krankenbau, infermeria. Dovevo lavare catini sporchi all’inverosimile, pulire dove, fino a qualche minuto prima, c’era il cadavere di quel che restava di un essere umano. Al Ka-be ho visto uomini senza anima, senza un barlume di luce negli occhi, privati del più infimo strascico di umanità. Ho visto nello sguardo di alcuni la bramosia per un trapasso ed essere così alleviati finalmente da una sofferenza ingiusta e che nessuno dovrebbe mai patire.
Il Ka-be era l’anticamera della morte.
Dal Ka-Be pochi ne uscivano vivi.
Un inferno nell’inferno.
Tra i tanti ricordi più atroci echeggiano ancora nelle mie orecchie le grida di sofferenza di una donna in travaglio. Io ero nella stanza di fronte e mi ero fermata a guardare sottecchi, facendo finta di pulire il lerciume sul pavimento. A quella carcassa di essere umano, entrata nel campo già gravida, la colpa di avere un figlio in grembo le stava costando un’atroce tortura. Per non sentire le sue urla strazianti, le avevano messo un bavaglio che le tranciava il respiro, incatenato le braccia al letto, ma la cosa più orrenda era che le avevano legato le gambe con delle vecchie lenzuola putride, mentre il suo corpo le chiedeva di lasciar andare suo figlio nel mondo, se pur un mondo orribile.
Sembrava non importare a nessuno di quei due miserabili. I carcerieri di quel luogo senza Dio volevano soltanto capire quanto una donna potesse sopportare un dolore simile.
L’ennesimo macabro esperimento di morte.
L’ennesimo modo per privarci dell’ultimo scampolo di dignità.
Quella donna urlava con tutte le forze in quella stoffa fetida! E urlava! E urlava! Quel suo urlare era simile al latrato dei dannati. Quelle grida mi devastarono l’anima già moribonda, facendomi venire voglia di non essere mai nata, invece ero lì e dovevo fingere di non sentire, di non vedere. Non era permesso mostrare pietà per un altro pezzo di essere umano. Dovevo tenere il capo chino e pregare solo che la morte li prendesse entrambi, prima possibile.
E quando ormai ero certa di impazzire, un ufficiale delle SS entrò a passo spedito.
«Krankenschwester!» lo sentii chiamare l’infermiera con tono rabbioso. Irma, una giovane donna la cui perfidia era pari a quella dei nostri torturatori, si accostò al militare che le ordinò qualcosa e poi andò via. Irma si avvicinò alla donna e tagliò la stoffa che le teneva prigioniere le gambe.
Un briciolo di pietà, pensai.
Mi sbagliavo.
E dopo altri istanti lunghissimi di grida strazianti, il liquido amniotico uscì fuori. Rimasi ferma a guardare, impotente. Lo stesso stava facendo Irma, ma nel suo sguardo c’era qualcosa di sadico che non potrò mai dimenticare. Guardavo la donna che stava ancora urlando e spingendo con le poche forze rimaste. Nei suoi occhi vedevo non solo il dolore fisico per quello sforzo che in un altro momento, in un altro luogo, in un altra vita sarebbero stati accompagnati da infinita emozione, ma la paura. La paura dell’ignoto, la paura di una sorte avversa per sua figlia.
E spingeva, nonostante fosse totalmente esausta. Vedevo quella testa già gran parte fuori. E all’ennesima spinta, carica di tutto il dolore possibile, la povera madre all’improvviso si liberò del suo fardello, tornando a respirare con affanno, completamente madida di sudore e ormai sfinita. Irma, con fare pratico, recise il cordone, poggiò quel corpicino su un tavolaccio lurido e disinteressandosi del suo piangere disperato, uscì dalla stanza. Guardavo quel piccolo angelo nato in un luogo di morte assoluta. Era una bambina, nuda, sporca e senza nessuno a confortarla. Sua madre, nonostante avesse bisogno di essere aiutata, guardava sua figlia, in lacrime. All’improvviso riprese a urlare affinché accudissero la sua piccola. Urlava e si agitava. La pelle dei polsi stava iniziando a sanguinare, ma lei sembrava non sentire alcun dolore, ma solo la disperazione per quell’abbandono ingiusto.
«Smettila di urlare! Ti prego smettila di urlare!» sussurravo tra me e me, tornando a fingere di pulire «smettila di urlare o saranno guai per tutti!» ripetevo come una litania disperata. Nessuno badava a loro, sembrava quasi che in quella stanza non ci fossero esseri viventi. La donna diceva qualcosa che non capivo, forse chiedeva pietà per sua figlia, consapevole che per sé stessa non c’era più alcuna speranza.
Mossi un passo verso di loro, non potevo sopportare una simile sofferenza, non potevo sopportare tanta malvagità contro un essere così indifeso. Intanto, all’esterno, l’ufficiale e Irma stavano discutendo. Mossi un passo ancora, ma il rumore degli stivali e la voce del militare che rientrava, mi fecero gelare il sangue nelle vene, costringendomi a tornare indietro. La donna urlava, mentre l’uomo in divisa le stava parlando con rabbia, in tedesco, forse voleva che la smettesse di urlare, ma lei ormai non aveva più nulla da perdere se non tentare di salvare sua figlia. Tutti nel campo conoscevano uno dei macabri divertimenti dei militari… il tiro a bersaglio con i corpi dei bambini!
Quell’ultima richiesta di pietà non trovò spazio nel cuore di quell’uomo senza Dio.
«Den Mund halten!», tieni la bocca chiusa, e all’improvviso gli vidi sfoderare la pistola.
«Den Mund halten!» urlò il militare. La donna disse qualcos’altro, tra le lacrime, quasi a sfidare l’ordine imposto.
All’improvviso un colpo echeggiò in tutto il Ka-Be. Un tremore prese a sconquassare tutto il mio corpo, ma mi sforzai di rimanere indifferente. Spazzavo, fingendo di non vedere, ma piangevo in silenzio.
L’ufficiale aveva sparato alla testa della sfortunata puerpera. Rimase a fissarla per un secondo lunghissimo, poi girò lo sguardo assassino alla bambina. Stringeva ancora il calcio della sua arma, ma forse non ebbe il coraggio di sparare anche a lei e uscì dalla stanza.
Con il respiro corto tornai a fissare il pavimento, terrorizzata. Pochi istanti dopo, quell’assassino in divisa tornò assieme a due prigionieri. Ordinò di prendere il corpo senza vita della madre e di portarlo via. Tutto questo davanti a quell’essere implume appena nato.
«Ehi!» urlò Irma nella mia direzione, facendomi spaventare a morte «tu, pulire!» e mi indicò dov’era la donna poco prima. Mi avvicinai. La creatura non smetteva di piangere.
«Pulire!» ringhiò ancora. E con i miseri stracci a mia disposizione iniziai a togliere via tutto. Prima che potessi finire il mio infame lavoro, quello stesso ufficiale tornò con un altro prigioniero.
«Nimm es!» gli ordinò di prendere la neonata. Guardai quel relitto d’uomo che probabilmente conosceva quella lingua dura. Con le sue mani sudice e scheletriche prese la bambina, che piangeva disperata. Vidi il numero sul suo braccio, 174517. Era la numerazione degli ebrei italiani come me. I nostri occhi, pieni di tutto il dolore del mondo, si incrociarono per un istante. Poi il militare delle SS lo spinse fuori, toccandolo con il suo frustino. Si fermarono davanti un grosso barile pieno d’acqua.
Presi nuovamente a tremare al pensiero di quello che stava per succedere.
«Ertränke es!» ordinò l’ufficiale. Non c’era bisogno di conoscere il tedesco per capire che gli stava ordinando di annegarla.
Quel povero numero umano non si mosse. Tremava e piangeva.
«Ertränke es!» urlò ancora, tirò fuori ancora una volta la pistola e la puntò alla tempia dell’uomo «Ertränke es!» urlò così forte da far tremare tutto il blocco. Quel miserabile non ebbe altra scelta. Immerse la neonata nell’acqua, sotto gli occhi gelidi del militare che fissava la scena, senza smettere di minacciarlo di morte. Piangevo in silenzio, lasciando mescolare le lacrime a quello che rimaneva di quella madre morta. Vedevo l’acqua gorgogliare sotto i movimenti della piccola.
L’acqua gorgogliava e lei combatteva.
L’acqua gorgogliava e lei combatteva.
L’acqua gorgogliava e lei combatteva.
Furono i secondi più lunghi della mia vita.
Quando quell’angioletto appena nato smise di muoversi, l’ufficiale ordinò a quel boia innocente di gettare il corpo senza vita sul carretto che stava tirando, lì, accanto a sua madre.
Il mio tremore non cessava. Seguii con lo sguardo quel cumulo di cadaveri allontanarsi, pregando che nessun altro tiranno, quel giorno, avesse voglia di giocare al tiro a bersaglio.
Quel nuovo dolore si adagiò sul vecchio dolore. Più il tempo passava più smettevo di desiderare di sopravvivere.
Quanto può un essere umano sopportare simili atrocità senza poter fare nulla? Quanto?
La vita, però, a volte devia il suo percorso in maniera strana e inaspettata, come un fiume carsico che cerca altre strade per poter trovare una via d’uscita. E fa di tutto per trovarla.
Il prigioniero 174517 mi si affiancò furtivamente, mentre tornavo alla mia baracca alla fine del turno.
«La bambina è viva» sussurrò «è nascosta dietro un albero, vicino al crematorio, ma non sopravvivrà a lungo, devi fare qualcosa» aggiunse, poco prima di allontanarsi a passo spedito e scomparire per sempre alla mia vista.
Sentii il cuore tornare a battere di una vivida speranza. Non importava se mi avessero sparato, ma dovevo provare a salvare la piccola, forse avrebbe potuto dare un senso all’inferno che stavo vivendo.
L’unico che poteva aiutarmi era Franz.
Quando ero arrivata al campo, mentre ero nel blocco chiamato Canada per lasciare ogni cosa della mia vita precedente, quel militare si era avvicinato con fare indifferente e mi aveva lasciato un biglietto nella mano. C’era scritto “Ich liebe dich” una donna polacca mi aveva spiegato che significava “Ti amo”. Avevo buttato via quel pezzo di carta. Mi disgustava l’idea di poter amare uno dei nostri carnefici. Non sopportavo la sua vista, ma lui aveva continuato a guardarmi con occhi pieni d’affetto. Passava dal mio blocco solo per vedermi. Dovevo sfruttare a mio favore quell’amore impossibile in un regno di dolore come Birkenau.
Tornai indietro, di nascosto, volevo accertarmi che la bambina fosse ancora viva. L’albero era al margine del campo, vicino il reticolato, ma lontano dal passaggio dei militari e dei Kapò. Quel piccolo fardello umano era ben nascosto, il suo salvatore aveva messo della paglia per terra e avvolto il corpicino in una vecchia coperta. Non la sentivo piangere. Ebbi paura fosse già morta. Mi avvicinai. La presi, sembrava stesse dormendo, ma in realtà era bollente.
«Non morire, piccola mia, non morire, ti prego!» e la strinsi a me, desiderosa di donarle un po’ della mia ormai inutile vita. La cullai appena e piansi. Non potevo trattenermi ancora. Le diedi un bacio sulla fronte e la rimisi nel suo giaciglio di fortuna «addio!» le sussurrai. E mi allontanai, certa che non l’avrei mai più rivista.
Tornai verso la mia baracca, ma cambiando strada, accodandomi ad altri fantasmi come me. Da lì sapevo di poter incontrare Franz. Lo vidi, era davanti la drogheria. Per la prima volta lo guardai e gli sorrisi. Cambiai strada, eclissandomi dietro il blocco undici e lui mi seguì.
«Sei bella» mi disse, con una espressione felice, lontano da occhi indiscreti.
Ricambiai con uno sforzo. Nonostante fossi ridotta a uno scheletro pelle e ossa, mi trovava bella. Per un attimo pensai che doveva davvero amarmi.
«Devi fare una cosa per me» gli dissi, scandendo bene, conosceva l’italiano, ma alcune parole gli sfuggivano. Fece un cenno di assenso, diventando serio di colpo «c’è una bambina sotto un albero, dietro il crematorio… Hast du verstanden?» aggiunsi quel “capisci?” in tedesco, una delle poche frasi imparate nel campo. Franz fece un altro cenno di assenso «devi portarla via… o morirà… febbre…» e mi toccai la fronte. Quell’uomo, in fondo dall’animo gentile, mi guardò con occhi pieni di paura «io forse non potrò salvarmi, ma ti prego, salva lei!» e gli donai una carezza «nascondila, nessuno deve sapere che è mai nata!» e senza dire altro mi allontanai.
Non sapevo se Franz avrebbe salvato la bambina, in fondo era un soldato delle SS, ma era l’unica speranza di salvezza per quella creatura.

Questo è la storia del mio primo giorno di vita, così come mi è stata raccontata da colei che è diventata mia madre, Helena, quella donna coraggiosa che mi ha salvato dall’inferno, donandomi una seconda vita, rischiando la sua nel chiedere aiuto a Franz, senza la certezza che l’avrebbe aiutata, ma aveva letto del buono in lui. Non aveva sbagliato.
Quando evacuarono il campo, con i russi alle calcagna, mia madre e un altro migliaio di persone, furono caricati su di un treno, diretto a est per essere soppressi! L’ultimo atto della soluzione finale! Prima di salire sul vagone, Franz diede a mia madre un altro biglietto, senza dire nulla. Il suo sguardo fu l’ultimo che vide prima che la porta si chiudesse. Il treno, quando arrivò a destinazione, fu riaperto dalle truppe sovietiche e furono tratti tutti in salvo.
Sul biglietto di Franz c’era scritto il nome di una donna e un indirizzo di Cracovia. Quell’uomo mi aveva salvata. Mi affidò a Inge, un’anziana amica di famiglia. Mia madre non ha mai saputo come abbia fatto a portarmi fuori da Birkenau. E venne a riprendermi. Per riconoscerla Franz aveva dato a Inge il numero tatuato sul suo braccio. Quel simbolo di morte, era diventato la chiave per ritrovarmi.
Il povero diavolo, numero 174517, che mi salvò, mia madre non lo rivide più, ma rivide Franz, durante il processo di Norimberga e nonostante avesse testimoniato a suo favore, non bastò per salvarlo dal carcere, dove morì. Non ho mai saputo se mia madre abbia in qualche modo ricambiato il suo amore, dopo avermi ritrovata sana a salva, ma di sicuro ha avuto per tutta la vita una profonda riconoscenza nei suoi confronti e il rammarico di non essere riuscito a salvarlo dalla prigionia.
Io vissi quasi un anno con Inge, fu lei a darmi il nome più giusto per me: nie geboren, trasformato in Niege Boren. Un nome e un cognome che per i tedeschi non volevano dire nulla e serviva solo per rendere invisibile al mondo intero una bambina ebrea, ma che in realtà racchiude tutto il senso della mia esistenza, dal primo giorno di vita: mai nata.