La bambina con le calze a righe

Incominciamo oggi la pubblicazione dei migliori racconti della sezione Narrativa a tema libero. Quarto classificato ex-aequo il racconto La bambina con le calze a righe di Maena Delrio.

La bambina con le calze a righe

La bambina ha calze a righe rosse e bianche e un fiocco tra i capelli, sotto il cappuccio; e un nome e un numero di telefono scritti col pennarello nero sul cappotto e sulla schiena. Ha un paio di scarpe infangate, di quelle che si vedono nelle pubblicità, tutte ricami e pizzi, ma gli strass e le stelline luccicanti scompaiono sotto lo strato di sporcizia. Vorrebbe chinarsi e grattarla via con le unghie, ma sa che la mamma non approverebbe; perciò, tormenta un lembo della sciarpa bianca che le avvolge il collo. Le scappa la pipì, stringe le gambe nel tentativo di trattenerla ancora per un po’. Ha camminato tanto, prima di prendere il treno che l’ha portata in questa stazione sconosciuta. Due ore senza mai fare una pausa, tra le macchine vuote e i carrelli abbandonati, e i larghi crateri lasciati dalle mine, fino al confine con la Polonia. Due ore con il vento che sferzava la faccia e il nevischio che confondeva i contorni delle cose; e la madre che trascinava la pesante valigia blu e le stringeva la mano nella sua, così forte da far sbiancare le nocche. Non si è preoccupata, la donna, delle pozzanghere che hanno incontrato lungo la via. C’è passata attraverso, e sua figlia con lei, perché quando stai scappando non fai molta attenzione a dove metti i piedi.
Ha visto un sacco di volti, la bambina, lungo quella strada. Con curiosità infantile ha scrutato i visi, alcuni familiari, altri meno. Compagne di scuola, vicini di casa. La commessa del negozio davanti ai giardini pubblici e sua nipote con le figlie gemelle. Tutte animate da una fretta inspiegabile. Ha ascoltato le voci, quelle sì, comprensibili, ma non più delle espressioni di sgomento e di paura degli adulti intorno a lei. Come va? Chi ti aspetta? Siete sole? Chi è rimasto? Le stesse domande, ripetute all’infinito. Ha intuito da tempo che qualcosa di grave è accaduto, ma cosa? Il concetto di invasione nemica non si può spiegare facilmente a una bambina di quattro anni. È troppo elaborato, per il suo pensiero semplice, parlare di interessi geopolitici, di conflitto, di missili, di soldati, di crimini contro l’umana specie. Le sirene antiaereo, le corse nei rifugi, le preghiere al buio sono un gioco, le ha sussurrato sua madre all’orecchio quando l’ha svegliata nel cuore della notte, le ha fatto indossare in fretta l’impermeabile sul pigiama e l’ha condotta in cantina dove gli altri condomini attendevano tremando che il fischio dell’allarme cessasse, ma lei non si è affatto divertita. I bambini non dovrebbero giocare alla guerra.
Il viaggio in treno è stato silenzioso. La mamma l’ha tenuta tra le braccia tutto il tempo, come se avesse paura che qualcuno potesse riportarle indietro. Ha chiuso gli occhi un poco, per riposare. È bastato un rumore appena più forte degli altri, una porta sbattuta, il fischio del capotreno, lo scalpiccio di passi tra i sedili. Subito s’è ridestata, le pupille dilatate, le gocce di sudore freddo sulla schiena, i muscoli tesi, come se si aspettasse una deflagrazione, uno squarcio tra i vagoni, una nuvola di schegge affilate sulla testa.
Anche la bambina ha sussultato, percependo l’afflizione di sua madre. E le è venuta voglia di piangere ma ha trattenuto le lacrime, per non aggiungere sofferenza al tormento. Ha già fatto quell’errore, al confine, quando ha chiesto perché papà non potesse venire con loro, mentre lo abbracciava per l’ultima volta. E subito si è morsa la lingua per aver fatto quella domanda, perché i genitori sono diventati tristi. Lui l’ha baciata su una guancia e le ha fatto una carezza, poi ha voltato le spalle per tornare indietro. Quell’interrogativo lasciato in sospeso le ha fatto male per un poco, poi l’ha dimenticato, e ora non saprebbe spiegare da dove viene il profondo struggimento che prova.
I bambini sono così, la loro memoria è fatta di scatole. Stipano i ricordi brutti dentro contenitori ermetici che difficilmente riapriranno, ma non possono imbrigliare le emozioni. Dolori e paure permangono, diventano adulte insieme a loro, anche se non si riesce più a identificarne l’origine.
La bambina con le calze a righe si guarda intorno. La stazione di Berlino è così diversa da quella di Leopoli. In una caotica babele di lingue, la moltitudine di persone dai tratti somatici più disparati sfila di fronte a lei, che si è accucciata vicino alla valigia blu. Tutti sembrano diretti da qualche parte. Tutti sembrano sapere dove andare. Su uno schermo gigante sopra la sua testa sono indicati gli orari e le destinazioni di ogni corsa. La voce di una donna risuona costantemente dagli altoparlanti, indica in tedesco quali sono i treni in partenza e in arrivo sui binari.
La mamma si è allontanata di un passo per parlare con un uomo con la divisa scura. Lui le sta indicando una fila lunghissima di gente sul lato est della banchina e gesticola per farsi comprendere. La donna alza la voce, esasperata, mostra i documenti, il cellulare che si è rotto e ora è inservibile. L’uomo scuote la testa, allarga le braccia. La mamma si inginocchia, batte i pugni sul lastricato sporco. Lui le poggia le mani sulle spalle, l’aiuta a sollevarsi, la consola. La bambina non se ne accorge nemmeno, affascinata dalle locomotive che sostano e ripartono, dal flusso costante della folla che sale e scende dai treni. Un rivolo di urina tiepida le scivola tra le gambe, forma una piccola pozza sotto di lei, ma è troppo concentrata nell’ascoltare lo stridio metallico delle rotaie per preoccuparsene.
La fiumana sul lato est si allunga. I profughi si riconoscono dall’incedere curvo, dallo sguardo spaesato, dalle rughe che appesantiscono i sorrisi amari, dai gesti lenti e da quei guizzi del cuore, impercettibili a un occhio non allenato, quando sopravviene un frastuono improvviso. Provano vergogna e gratitudine quando i volontari cominciano a distribuire i sacchi a pelo e un piatto di minestra calda. La maggior parte di loro dormirà lì, sulla banchina, in attesa del treno che li porterà alla fine del viaggio. Alcuni, una meta, neppure ce l’hanno.
La bambina con le calze a righe bianche e rosse non sa dov’è diretta. La mamma la chiama, lei si alza in piedi, le prende la mano. È stanca di camminare ed è stanca di aspettare, ma ubbidisce. Quando scappi dalla guerra non puoi permetterti di fare i capricci. C’è una fila di passeggini abbandonati vicino alla striscia gialla. L’uomo con la divisa ne prende uno, la invita a sedersi, la mamma annuisce, la incoraggia ad accettare. Nel marasma delle voci le sembra di sentire il suo nome, qualcuno che la chiama, ma d’un tratto si sente esausta, poggia la testa allo schienale.

– Anastasia! Darya!
Non si alza quando due sconosciuti le corrono incontro, e neppure quando sua madre li abbraccia e scoppia a piangere. A intermittenza riconosce alcune parole nel profluvio di informazioni che le arrivano all’orecchio. Il termine casa è usato più volte, e alla mamma si illuminano gli occhi quando lo ripete.
Sì, casa. Andiamo a casa. La bambina non è sicura che gli adulti parlino di quella che hanno lasciato, in Ucraina. Ma il sonno è più forte della curiosità. Serra forte le palpebre e chiude il mondo fuori da sé. Si sveglierà in Italia, l’indomani, in un letto caldo e morbido, vicino alla sua mamma. Ma continuerà a sognare ancora a lungo bombe che piovono dal cielo, e treni in corsa diretti verso l’ignoto.