Il re della steppa

Continuiamo la pubblicazione dei migliori racconti per ragazze e ragazzi, la nuova sezione del Clepsamia. Ecco il racconto 3° classificato ex-aequo: Il re della steppa di Giuseppe Cappiello.

Il Re della steppa

Lo spettacolo era piaciuto a Mikhail. Gli acrobati dal fisico scolpito ed elastico e gli animali esotici avevano entusiasmato grandi e piccini sotto il tendone rosso del circo che era giunto in città qualche giorno prima sistemandosi proprio sotto casa sua in un abbandonato e sconfinato terreno non fecondo che terminava laddove si aprivano i cancelli dell’acciaieria in cui lavorava, da qualche anno, sua madre. Il biglietto di ingresso al circo fu il regalo della donna per il nono compleanno del figlio. Benché costasse quanto il guadagno di due giornate di lavoro, si decise ad interrompere la lunga catena di rinunce a cui aveva abituato il bambino, dopo la scomparsa del papà in un incidente stradale quando lui ancora gattonava. E così Mikhail aveva potuto osservare dal vivo, a distanza di un soffio, pappagalli, giraffe, scimpanzé, elefanti, tigri e un leone che fu chiaramente il più acclamato dalla folla.
All’uscita dallo spettacolo, iniziò inaspettatamente a nevicare e Mikhail già pregustò la successiva giornata di giochi con gli amici e con gli slittini di legno rudimentali, che avevano costruito a Natale, nel cortile adiacente alla scuola elementare che frequentava con ottimi voti in matematica e scienze. Non vedeva l’ora di descrivere loro quello che aveva visto, di essere per una volta colui che raccontava dopo innumerevoli volte in cui aveva ascoltato le esperienze altrui sognando di imitarle. Gli avrebbero chiesto di mostrare qualche fotografia, ma lui il cellulare non lo possedeva ancora e doveva fare affidamento alla sua ottima memoria per parlare dei colori, delle dimensioni, dei segni particolari di quegli animali di cui le pagine del libro di scienze erano piene.
Quando rientrò a casa, da solo come aveva imparato a fare, la sua mamma dormiva già e se ne dispiacque molto perché avrebbe voluto tanto svegliarla e abbracciarla quella donna minuta, taciturna e refrattaria ai gesti d’affetto e alle parole dolci, indurita nello spirito e nel fisico da un lavoro monotono e sfiancante che si augurava suo figlio non facesse al termine degli studi. Mikhail, mettendosi a letto, si ripromise di abbracciarla l’indomani a colazione, prima che si separassero, uno per giocare con la neve, l’altra per lavorare l’acciaio.
La mattina seguente, però, dal cielo, non caddero soltanto docili e innocenti fiocchi di neve, ma anche violente e rapide supposte metalliche il cui rumore, cadendo al suolo o sui tetti di edifici civili e capannoni industriali, si scontrava ferocemente con il candore bianco porcellana della neve che si era posata ovunque. Le sirene antiaeree incominciarono a risuonare senza sosta diventando da quel momento la colonna sonora delle disgraziate esistenze di quella povera gente senza colpe e senza più certezze.
I bambini del casermone grigio quadrato in cui viveva Mikhail, tirato su dopo la seconda guerra mondiale e destinato agli operai della vicina acciaieria, andarono a nascondersi con le proprie mamme nel seminterrato spaventati e sorpresi dall’intensità sempre maggiore delle deflagrazioni; gli uomini in gruppi più o meno numerosi si allontanarono sotto la luce giallognola dei lampioni ancora accesi per raggiungere imprecisati luoghi dove imbracciare le armi, alcuni per la prima volta in vita loro.
Mikhail fece appena in tempo ad affacciarsi dalla finestra della sua minuscola stanza per osservare quegli uomini con berretti con la visiera e gonfi borsoni verdi sulle spalle e voltando lo sguardo verso sinistra, trasferì subito la sua attenzione a quegli animali che venivano da lontano e che avevano sfilato composti e silenziosi la sera prima sotto il tendone rosso del circo. Si dispiacque per quelle povere creature impaurite e infreddolite. In particolare, il leone avanzava mogio mogio nella sua gabbia in un noioso e doloroso andirivieni che non faceva altro che aumentare i morsi della solitudine.
Chi si sarebbe curato di quelle povere bestie? Chi avrebbe sfamato il Re della foresta? si domandò supplicando una rapida risposta dal mondo che voltava le spalle alla sua tenera età senza curarsi di proteggerla. Provò per lui una sincera pena e arrivò a vergognarsi per il piacere che quegli animali così belli gli avevano procurato la sera prima in un ambiente che non era il loro e in luogo divenuto pericoloso per la loro sopravvivenza. Oltre l’acciaieria, nel frattempo, sfilavano velocemente, uno dietro l’altro, i carri armati nemici, come formiche dirette verso un formicaio.
Trascorsero due lunghe settimane prima che tornasse il silenzio lungo i viali della città devastata e irriconoscibile. Le forze armate del Paese avevano liberato la città dagli invasori dopo una strenue ed eroica resistenza e tutte le donne e tutti i bambini del palazzo poterono, così, abbandonare i seminterrati umidi e freddi in cui si erano riparati mangiando patate crude e bollite, pregando e raccontandosi storie di speranza con la morte addosso.
Dalle ciminiere dell’acciaieria si levava la solita intensa colonna di fumo bianca che sporcava il cielo celeste senza macchie. Pochi fortunati palazzi restavano in piedi nel vicinato, vivi come quei pesci che riescono a sottrarsi alle reti nelle profondità del mare. Altri si reggevano a fatica come fiammiferi anneriti.
Mikhail, appena rivista la luce del giorno, si stropicciò gli occhi per togliersi di dosso il buio e l’oscurità con i quali aveva convissuto per non morire e si diresse verso ciò che restava del circo benché le gambe gli facessero male e i piedi fossero congelati. Gli animali, lì lasciati a schivare il destino, erano stato il suo pensiero ricorrente durante la permanenza forzata sotto terra e intorno ad esso aveva inventato storie da sveglio e custodito sogni quando voleva addormentarsi, come quello di realizzare una piccola arca di Noè per trasportare quelle creature nei loro lontani habitat naturali. Correndo tra detriti e cadaveri umani, tra cui riconobbe quello dell’anziana nonna di un suo caro amico sotto un semaforo spento come la vita nei dintorni, raggiunse presto il luogo desiderato. Alla furia delle schegge e dei missili era scampato ben poco. Alcuni animali erano miracolosamente vivi ma apparivano denutriti e lanciavano gemiti rassegnati, quasi svogliati. Avrebbe voluto avere la forza di Ercole per sradicare quei recinti e liberare le povere creature da quella detenzione innaturale ma si sentì mancare le energie quando vide il leone accovacciato nella sua gabbia, immobile come una statua in un museo. Il fetore che arrivò alle sue narici, trasportato dal gelido vento da nord, era quello della putrefazione. L’anima del leone era già ascesa al cielo, restava solo la chioma arruffata e il corpo quasi scheletrico del Re che aveva abdicato alla vita. Da solo, senza spettatori come in un teatro vuoto.
Mikhail si mise la sciarpa di lana sul naso a coprire quel cattivo odore di morte mentre le lacrime agli occhi avevano definitivamente rotto gli argini trascinate sulle guance da un singhiozzo irrefrenabile. Si avvicinò, a passi lenti, alle arrugginite inferriate della gabbia del leone, sotto la quale, durante quel lungo tempo in apnea, la natura aveva fatto spuntare sparuti, ma bellissimi fiori di campo che annunciavano l’imminente primavera. Dalla tasca sinistra del suo giubbotto troppo grande per lui, Mikahil estrasse una corona realizzata con del cartone, della colla e un pennarello giallo durante le lente giornate nel rifugio sotterraneo e la posò ai piedi dell’animale.
Perché lì giaceva un Re. Il Re della steppa.