Dal ritratto all’auto-scatto moderno: fenomenologia dei selfie

Incominciamo oggi la pubblicazione degli elaborati del Clepsamia 2022 che si sono classificati ai primi posti. Ecco dunque Dal ritratto all’auto-scatto moderno: fenomenologia dei selfie il saggio di Marco Troisi, classificatosi al 3° posto ex-aequo nella sezione Articolo/Saggio breve.

Dal ritratto all’auto-scatto moderno: fenomenologia dei selfie –

Autore Marco Troisi

E’ questa l’epoca dei selfie. Di certo chiunque possegga un cellulare dotato di fotocamera e un profilo social, si è scattato, almeno una volta, un selfie. Nell’era della rivoluzione digitale basta uno smartphone e un clic per solcare il mare del web con le vele del nostro narcisismo ben spiegate. I social sono dei diari visivi, archivi digitali di immagini, repertorio sterminato dell’umana vanità. E’ questa l’era del narcisismo collettivo, i new media e i social sono vetrine per innumeri io in cerca di (foto) camera con vista. Il visivo in tutte le sue modalità è il vettore comunicativo, la forma di comunicazione più performante nel contemporaneo. Probabilmente se Teofrasto fosse vissuto ai giorni nostri, nel pieno di questa epoca digitale, avrebbe dovuto aggiornare il catalogo dei tipi umani annoverandovi nei suoi Caratteri anche il selfista, ovvero colui che si scatta i selfie, che possiamo esemplare nel tipo vanitoso, una sorta di novello Narciso che si mira alla fonte. In effetti il ritratto e l’autoritratto sono enormemente diffusi anche nella comunicazione contemporanea, a cambiare sono le modalità di produzione, fruizione e circolazione. Riguardo alle tipologie, nei social network abbondano i selfie di chi si riprende in ogni dove possibile: al mare, in montagna, per la scampagnata fuori porta, allo stadio, nei luoghi di vacanza, oppure si condivide un momento del quotidiano mentre si è in macchina, in ascensore, ai fornelli. Immancabili i selfie con gli animali, cani e gatti su tutti, un evergreen che non passa mai di moda. Il selfie consiste quindi nell’autofotografarsi “postare” e “condividere” l’immagine sui social.

La mania del selfie è nata proprio con i social, che sotto traccia propinano la filosofia spicciola e a buon mercato che la vita è adesso, come ripetono tanti slogan pubblicitari. Il selfie ne è la sua sintesi espressiva visiva più lampante e manifesta. Il selfie è una pratica sociale ed estetica che oggi si avvale dell’uso di una pluralità di canali per la condivisione sulle piattaforme social, non solo Facebook Twitter Instagram, ma anche programmi appositi per la pubblicazione e condivisione delle immagini quali Flickr, Pinterest e molti altri ancora. Pensate che solo su Instagram le foto con l’hashtag #selfie sono 468.096.534. Di questa modalità comunicativa si avvalgono non solo attori, attrici e quanti gravitano in questo mondo, ma anche politici e professionisti dell’informazione.

Selfie: la definizione

Selfie è un neologismo che viene impiegato per la prima volta nel settembre 2002, da Nathan Hope, in un forum di discussione australiano (“Dr Karl Self-Serve Science Forum”). Nel vocabolario inglese questa è la definizione di selfie: “una fotografia che una persona ha fatto di se stessa, normalmente con uno smartphone o una webcam, e poi ha pubblicato su uno dei social media”. È solo nel 2013 che l’Oxford English Dictionary, scegliendolo come parola dell’anno, ne dà una precisa definizione: “si tratta di selfie (o selfy; plurale selfies) una fotografia di se stessi, solitamente con uno smartphone o una webcam con obiettivo frontale e possibilità di vedersi mentre ci si scatta, e che verrà divulgata tramite i social”. Questa invece la definizione della Treccani: “autoritratto fotografico generalmente fatto con uno smartphone o una webcam e poi condiviso nei siti di relazione sociale”. Il selfie più celebre, per quanto riguarda il numero di condivisioni social, è dell’attrice e conduttrice statunitense Ellen Degeneres che nel marzo 2014 ha condiviso sul profilo Twitter un autoscatto in compagnia di alcuni protagonisti della notte degli Oscar.

Autoscatto fotografico e selfie: le differenze

L’autoscatto oggi è molto simile a un odierno selfie, mentre quando parliamo di autoritratto ci riferiamo a una forma artistica capace di cogliere uno stato emotivo, la psicologia e l’interiorità del soggetto ritratto. Vi sono poi delle differenze di carattere tecnico. Un tempo l’autoritratto fotografico si faceva davanti allo specchio, oggi lo specchio è stato sostituito dallo schermo del cellulare. Si tratta quindi di autoritratti di scarsa qualità che ci riprendono e ci raccontano nella nostra quotidianità. Un’altra delle regole per cui il selfie si distingue dall’autoritratto classico è che è costruito espressamente per essere condiviso, per cui non ha una fruizione privata bensì è destinato un pubblico di massa perchè con i selfie vogliamo influenzare il modo in cui gli altri ci vedono. Nell’autoritratto fotografico siamo in posa davanti allo specchio e quindi la foto è un processo tecnico della macchina che ci esclude in quanto non ci vediamo mentre scattiamo, quando ci fotografiamo per un selfie con lo smartphone con obiettivo frontale invece il risultato è subito sotto i nostri occhi. Nell’Ottocento e in particolare nei primi due decenni del secondo dopoguerra del Novecento si diffonde la moda dell’autoritratto da parte delle elite aristocratiche che potevano permettersi l’acquisto di una macchina fotografica.

Selfie e auto-ritratto pittorico: le differenze 

L’autoritratto pittorico presuppone un’educazione allo sguardo, l’apprendimento di una tradizione pittorica, il selfie invece esprime una modalità edonistica dei tempi presenti. L’autoritratto richiede la conoscenza di regole codificate perché rientra nel genere pittorico, per i selfie invece non occorre alcuna competenza, basta possedere uno smartphone, allungare il braccio e scattare. Alla base non vi è alcuna intenzionalità artistica. L’autoritratto invece presuppone uno studio, uno scavo interiore della propria personalità, quindi quel che emerge è la propria interiorità. Dall’autoritratto pittorico, pratica destinata a un pubblico di elite, si è passati alla pratica di massa come autoscatto o autoritratto grazie alle macchinette digitali, ai cellulari e agli smartphone che dispongono di obiettivi sempre più perfezionati per scattare i selfie.  Un’altra differenza pertiene alla destinazione riguardo al pubblico dei selfie e quello dell’autoritratto. I selfie non hanno come destinatario un pubblico specifico, e quindi anche gli sconosciuti possono vedere il nostro selfie su internet se non si sono attivate determinate impostazioni sulla privacy sui social. L’autoritratto è invece rivolto fondamentalmente a se stessi. Nel proprio volto dipinto l’artista cerca se stesso. Col selfie si dà autorappresentazione di sé, quindi vogliamo veicolare una certa immagine di noi agli altri. Tuttavia tra ciò che desideriamo comunicare con un selfie e quindi come vorremmo che gli altri ci vedessero e ciò che invece viene percepito da chi osserva il selfie, corre in effetti molta distanza. Il selfie nutre un desiderio di esteriorità, fotografa un attimo, è cronaca, l’autoritratto è la sintesi della nostra vita fino a un dato momento, è storia. Col selfie ci guardiamo, con l’autoritratto ci raccontiamo. 

Ritratti d’autore 

Rembrandt in camicia ricamata 

Quando realizza questo dipinto, Rembrandt (1606-1669) ha 34 anni. Questo ritratto ci mostra il pittore olandese ancora giovane la cui fattura rivela la perfetta conoscenza dell’arte italiana, in particolare di Tiziano. Il pittore si raffigura con la camicia finemente ricamata, abbigliamento tipico della sua epoca, mostrandoci un’immagine di piena consapevolezza di sè. L’artista è ritratto nella fase ascendente della sua carriera in cui predomina l’ambizione e la fierezza per la propria pittura. Rembrandt si volge verso lo spettatore col braccio appoggiato alla balaustra. Senza alcun manierismo si rappresenta con la baldanza tipica della giovinezza: il volto tendente al pingue e bianchiccio, con un po’ di peluria e una ruga del pensiero tra le sopracciglia. Anche negli anni a seguire Rembrandt seguiterà a ritrarsi in maniera sempre più impietosa senza farsi alcuno sconto. 

Papa Innocenzo X, Velasquez (1599-1660) 

Velasquez è considerato il più importante pittore spagnolo del Seicento e la sua fama di impareggiabile ritrattista lo precedeva dovunque andasse. Artista di punta alla corte di Re Filippo IV, esegue questo ritratto di Innocenzo X, quando il pontefice ha l’età di 75 anni. In questo ritratto il papa siede sul trono in legno dorato e indossa la tipica mantellina portata dai papi e cardinali, adagiata sopra un lungo abito di lino bianco che gli va a coprire del tutto le gambe. Il pontefice si mostra di tre quarti verso destra con le mani poggiate sui braccioli della poltrona, lo sguardo penetrante rivolto verso lo spettatore. Dall’immagine traspare una certa dinamicità perché la figura non è in asse ma è spostata verso sinistra. I tendaggi sempre di colore rosso circondano le spalle di Innocenzo X. Di questo papa erano noti l’asprezza di carattere, il tenere in poco conto la letteratura e anche la sgradevolezza dell’aspetto. E’ dunque un vero e proprio ritratto psicologico quello di Velasquez. 

Autoritratto entro uno specchio convesso, Parmigianino (1503-1540) 

A guardarlo produce un effetto straniante perché sembra precorrere la moda odierna dei selfie a causa della visione distorta dello specchio convesso oppure per lo stesso motivo dà l’impressione di una inquadratura cinematografica perturbante. Una volta arrivato a Roma, il giovane artista donò il proprio autoritratto, dipinto a olio su tavola convessa, a papa Clemente VII per ingraziarsene la benevolenza e ricevere eventuali commissioni da parte del mecenate. Nel dipinto rappresenta lo specchio come immagine dell’animo. La mano è ingigantita dalla deformazione operata dallo specchio convesso. Il ritratto è ambientato in una stanza vuota. Il Parmigianino ha l’aspetto androgino e veste in maniera elegante e ricercata. Il volto è rappresentato di tre quarti, mentre lo sguardo è rivolto verso lo spettatore. La mano lunga e affusolata anticipa la predilezione del Parmigianino per le figure allungate come nella Madonna dal lungo collo. Lo spazio lo si può ricostruire dalle linee curve e deformi della finestra di destra e del soffitto in alto. Le pareti della stanza che fanno da sfondo sono deformate dallo specchio curvo. Dietro al giovane artista, invece, sullo sfondo è riconoscibile un interno, a sinistra una finestra e in alto un soffitto ligneo. La profondità viene colta attraverso la mano in primissimo piano sovrapposta e molto più grande rispetto al corpo in secondo piano. E in effetti sugli specchi e la loro valenza magica è fiorito un filone letterario considerevole. Non è un caso che il Parmigiano coltivasse un interesse per l’alchimia e la magia. Vi è come sottotraccia la credenza secondo cui guardare qualcuno riflesso in uno specchio significhi guardare nell’anima di chi si sta specchiando. Lo specchio convesso mostra e rivela l’io nascosto del pittore, la sua interiorità. 

Coniugi Arnolfini, Jan Van Eyck (1390-1441) 

Una delle coppie di sposi più famose nella storia dell’arte. Si tratta del ritratto matrimoniale del famoso commerciante di Lucca e della giovane moglie residenti a Bruges. Viene ritenuta un’allegoria del matrimonio e della maternità. Il ritratto dei coniugi Arnolfini datato 1434 è ambientato nella stanza da letto di una casa fiamminga. Gli sposi sono stati identificati, sebbene non tutti gli studiosi concordino, in Giovanni di Nicolao Arnolfini mercante di Lucca che viveva a Bruges e sua moglie Giovanna Cenami. Sulla parete in fondo tra lo specchio e il candelabro vi è l’apposizione di una scritta latina in cui si può leggere “Jan Van Eyck è stato qui nel 1434”. L’opera rappresenta con minuzia di particolari un ambiente domestico del Nord Europa. L’abbigliamento della coppia è serio e formale. Da notare lo splendido lampadario che troneggia al centro della stanza con i bracci sagomati. C’è una sola candela accesa sul lampadario a indicare che gli sposi sono diventati una sola cosa e quindi è simbolo di fedeltà coniugale. Il letto è a baldacchino e a sinistra sotto la finestra vi è posato un frutto. La luce filtra dalla grande finestra a croce. Il gesto della donna che raccoglie sul grembo un lembo del suo vestito alla moda del tempo è di buon auspicio per la futura gravidanza, lo stesso colore verde delle vesti indica lo stesso evento fausto. Anche la frutta è un augurio di fertilità in quanto simboleggia i frutti del matrimonio e quindi i figli che verranno. Il cane raffigurato ai piedi della donna è simbolo di fedeltà coniugale. I due sposi si tengono per mano con vesti eleganti mostrando tutti i dettagli della camera da letto, mentre a terra sono lasciati gli zoccoli del marito e quelli della moglie. La mano destra dell’uomo la si può interpretare sia come un saluto che come un giuramento. E’ probabile che i due siano impegnati nella pronuncia della promessa di fedeltà matrimoniale alla presenza di testimoni. Vi è chi ha ipotizzato che, contrariamente a quanto sembrerebbe, la moglie non sia incinta ma semplicemente sorregge la gonna a drappo tanto di moda all’epoca. Lo specchio dalle cornici a tondo che raffigura delle scene della passione di Cristo riflette l’immagine degli sposi da dietro, oltre che di due figure sulla soglia. Forse uno di loro vestito di blu è proprio Van Eyck. Gli oggetti sparsi per la stanza evocano il rapporto tra i due sposi: dal piumino per la polvere appeso alla lettiera che indica la sollecitudine per le cure domestiche della donna, alla statua di Santa Margherita o Santa Marta. Eppure nel guardare questo dipinto non ci si libera da una sensazione di solitudine che sembra nascere dalla distanza che separa i due sposi. 

Selfite: una lettura del fenomeno 

Il selfie appartiene a una pratica sociale ed estetica iscritta nell’orizzonte contemporaneo, ed è sempre importante decifrare il senso delle pratiche culturali e sociali. E’ opportuno quindi interrogarsi su questa auto-rappresentazione del sé e sui significati che vi sono correlati. I social media educano gli utenti a promuovere e pubblicizzare una rappresentazione di sé attraverso la costruzione di una propria reputazione digitale. Il selfie è il mezzo più rapido e semplice che abbiamo a disposizione per comunicare qualcosa di noi, sia uno stato d’animo, una situazione, una condizione. Nella rappresentazione e quindi nell’autorappresentazione di sé online il selfie diventa un elemento catalizzatore. I social media indubbiamente rappresentano uno strumento importante per la narrazione e rappresentazione di noi stessi, un sé che connettiamo con altri contatti sociali. D’altronde alcuni studiosi hanno affermato che i social media sono proprio degli strumenti performativi che ci permettono di narrare la nostra vita in quanto danno la possibilità a ciascuno di noi di organizzare un proprio palinsesto narrativo, di raccontarci come meglio crediamo. Di questa rappresentazione autoreferenziale siamo gli autori, scegliamo noi cosa mettere in scena e cosa tenere fuori.

Ma quali sono le ragioni che sottostanno a questa sorta di coazione a ripetere? I media tendono a liquidare sbrigativamente il fenomeno dei selfie attribuendolo a un narcisismo esasperato. Attaccare un’etichetta a un fenomeno non equivale a comprenderlo, la diagnosi non è una cura. E dunque non sono di per sè i social a rendere più narcisisti, secondo la spiegazione dei media che invertono la causa con la conseguenza. I social media non fanno altro che solleticare il nostro narcisismo apprestandoci i mezzi per esprimere la nostra personalità come fosse un prisma. In questo senso per i narcisisti è una sorta di paese dei balocchi.

L’epoca dei selfie ha capovolto la teoria di Roland Barthes: “Ciò che la fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo una sola volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai più ripetersi esistenzialmente (…)”. Nell’epoca dei selfie la fotografia non è più immagine dell’irripetibile, ma del ripetibile all’infinito. Il selfie è una sorta di dispositivo che ci oggettiva dinanzi al mondo. Il ritratto online non rimanda ad altro che a se stesso, puro significante, pura immanenza, ma ogni volto nel mistero radicale che lo abita è anche apertura e invito alla trascendenza. Il selfie invece non disvela né decifra il volto, il nostro sé più intimo. L’uso compulsivo dei selfie può intendersi quale espressione del solipsismo d’un narciso moderno innamorato della propria immagine riflessa. Il selfie nel ritrarci ci ritrae dalla vita. I selfie non sono quindi uno strumento per entrare in rapporto con l’altro, bensì un modo per essere misurati sulla base dei parametri presenti nei social per valutare la qualità del nostro scatto, ovvero i like, i commenti. In particolare secondo gli esperti nel campo delle scienze umane, l’uso compulsivo dei selfie sarebbe la spia di altri disturbi quali depressione, schizofrenia, ipocondria, sindrome da deficit di attenzione, disordine ossessivo compulsivo, voyeurismo. Ma queste foto sono autoritratti di se stessi o solo immagini? Borges scriveva che “gli specchi e la copula sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini”. In quest’epoca digitale, un altro “abominevole” strumento si è affermato per reiterare l’umana stirpe: i selfie.