Ascolta… il vento

Proseguiamo con la pubblicazione dei migliori racconti della sezione Narrativa a tema libero. Oggi è la volta del racconto secondo classificato Ascolta… il vento  di Ferdinando Romito..

Ascolta… il Vento
(liberamente ispirato al capolavoro di Grazia Deledda Canne al vento)

Erano sedute lì, sul muretto basso di pietre che faceva da confine al piccolo podere, aspettando già da un bel pezzo. La luna non si era ancora levata, e i contorni di ciò che restava del vecchio castello si stagliavano netti nel cielo terso del pomeriggio inoltrato.

– Credi che arriverà? – chiese Rita.
La donna più giovane sorrise di un sorriso accusatorio.

– Certo che arriverà. Si ritorna sempre, quando non si ha più nulla da chiedere alla vita.
E in effetti, al di là della vallata sottostante, oltre il piccolo fiumiciattolo che divideva in due un folto canneto, tra la ricca vegetazione, i pascoli e gli altri poderi coltivati ad alberi da frutto, un’esile figura bianca si faceva faticosamente strada salendo per la mulattiera appena accennata, ormai in disuso da tempo. Di tanto in tanto quella figura si fermava, forse per prendere fiato, guardava in su, riprendeva la sua faticosa ascesa, inerpicandosi attraverso quel canneto che, dalla parte bassa del fiume, era costituito da sottili e fragili canne, rachitiche, dalle quali anche le solitarie foglie che da ciascuna pendevano verso il terreno sembravano non essere cresciute più di tanto. Al contrario, il canneto al di qua del fiumiciattolo era una fittissima selva di maestose pertiche, dritte a toccare il cielo, i cui fusti larghi quanto il medaglione appeso al collo della dottoressa Dolores, erano ben piantati in terra e le foglie, abbondanti e rigogliose, facevano ad esse degno corollario.

– Eccolo. Che ti avevo detto?» continuò Nadia, distogliendo solo per lo stretto necessario lo sguardo dallo scialle che stava abilmente confezionando con i ferri da lavoro.
L’uomo diradò le ultime canne che gli ostruivano il passaggio e guardò verso di esse. Provò un vago senso di smarrimento, nel vederle sedute nel medesimo posto che egli aveva occupato per così tanto tempo, posizione dalla quale soleva stare ore e ore a scrutare la vallata sottostante e rimuginare sui suoi pensieri pesanti come macigni, ben oltre i confini visibili dell’umana natura. C’era, poi, anche una fastidiosa sensazione in quelle presenze, che non riuscì a definire.
Riprese a salire, questa volta più celermente, deciso a riprendersi ciò che era sempre stato suo. Ne aveva un impellente bisogno.
Si fermò davanti a loro e, sebbene fosse di gran lunga più alto delle donne, la linea dei loro sguardi lo poneva al di sotto di esse, per via del terreno fortemente scosceso.

– Avrei un desiderio… – disse – …sedermi lì dove ho sostato per tanto tempo e dove adesso voi siete, sedute a far nulla.
Elena, la meno giovane, lo guardò indifferente e lui, attraverso le lenti dalla montatura dorata e sottile, s’incontrò invece con gli occhi di Rita, mansueti e con una leggera nota di mestizia nel fondo; poi fu la volta di quelli di Nadia che, proprio in quel momento, si sollevarono dallo sferruzzare frenetico delle mani, duri e accusatori. Rimasero così per qualche istante, al termine del quale, senza scomporsi più di tanto, ella si levò in piedi.

– Prego, dottore – lo apostrofò, sarcastica – del resto la riconoscenza, così come l’umiltà, non sono virtù di questo mondo. Non è forse così?
Nadia fece un muto cenno col capo alle altre sorelle, esortandole a sollevarsi. Così fecero, ognuna col suo intimo modo di fare. Tutte e tre arretrarono dal muretto di qualche passo, senza che in alcuna di loro nascesse l’intenzione di andar via.
L’uomo in camice bianco, a dispetto della sua età prossima alla fine, che avesse venti o cent’anni nulla cambiava, si sollevò agile sul muretto di pietre e trovò posto lì dove erano sedute le tre donne; e nello stesso istante in cui adagiò penzoloni le gambe stanche nel vuoto, la sua inquietudine crebbe e d’un tratto si chiese, per la prima volta, cosa lo avesse spinto a ritornare lì dopo così tanto tempo.
Strinse un poco gli occhi, e lo sguardo cominciò ad errare senza una precisa meta sulla valle, come tante volte aveva fatto in passato, coi morsi della fame attanagliargli lo stomaco, le bolle per il continuo zappare bruciargli le mani e la voglia di farla finita inondargli la mente.
Ma adesso no: adesso non c’erano crampi e il suo stomaco, a dispetto della sua magra figura, era ben pieno di cibo superfluo; non c’erano cicatrici, né piaghe, né rossori, in quelle sue mani ben curate. Forse solo qualche lieve callosità residua e resistente persino allo scorrere del tempo. Non c’erano pensieri autolesionistici, a riempire la sua mente, ma solo agende colme di appuntamenti e numeri di telefono, convegni e sale operatorie, infermiere e donne, e…
Laggiù, in fondo, oltre i poderi che ancora resistevano intatti al progresso, l’edificio bianco della clinica, della sua clinica, svettava pugno bianco nel verde circostante. L’aria era tersa come non mai, e non c’era un alito di vento. Cosicché riusciva persino a scorgere qualche sagoma fuggevole dietro le finestre dell’ultimo piano. O forse erano soltanto illusioni, illusioni di voler vedere per forza anche quello che non si può. E poi c’erano tutti quei colori brillanti, netti, decisi, come soltanto in questa porzione di mondo il sole, ormai prossimo a scomparire dietro l’orizzonte, riesce ad offrire.
Era ormai solo, e da solo doveva disperatamente comprendere del perché l’ansia crescesse a dismisura, anziché stemperarsi nell’ambiente circostante, così incline a poter accettare i suoi patimenti.
Cosa lo preoccupava? Che cosa gli serrava la gola e gli faceva battere forte il cuore nel petto?
Riaffiorarono lontani ricordi sopiti, ricordi che volutamente erano stati ricacciati nei cassetti più nascosti dell’io cosciente. Si ritrovò bambino, ad inseguire lucertole su quello stesso muro, chiamando istintivamente e distrattamente, senza ottenere risposta alcuna; si ritrovò ragazzo, ad inseguire su quello stesso muro ancora, nelle notti lunari e quiete, il suo sogno di fuggire via per sempre da quel podere che con tanta fatica, fisica e morale, era costretto a coltivare nella povertà più assoluta, maledicendo i morsi della fame che pane e cipolla non riuscivano a placare.
Poi era arrivata la svolta, quella manna dal cielo, unica possibilità di riscatto. Ed egli di quella manna se ne riempì la bocca, le mani, le tasche dei calzoni e della misera giacca, fino a dimenticarne il sapore dolce e ristoratore. Ma si sa, quando si sta bene ed in salute non ci si preoccupa delle malattie: è quando queste sopraggiungono, improvvise e temibili, che ci sconvolgono a tal punto da ritornare ad apprezzare pienamente le cose semplici ed importanti della vita.
Tutti quei pensieri lo stritolavano, animale preso alla tagliola, e più tentava di divincolarsi, più i denti stringevano, segavano, dilaniavano carni e ossa e ancora più in fondo… l’anima.
E si alzò il vento.
Dapprima un accenno di brezza, lieve lusinga e sussurro di amanti; un canto, dolce di sirena. Poi rinforzò un poco, e già il camice bianco cominciò a fluttuare nell’aria mossa. E ancora il vento aumentò, e tutto prese ad agitarsi pericolosamente: mille refoli sibilavano, infilandosi nel fogliame denso degli alberi, nei più nascosti anfratti dell’erba, nei labirinti contorti delle canne piegate…
Panas… sembrò da qualcuno udire …è il lamento delle Panas… e il suo io ne rimase sconvolto.
Scese dal muretto, più dalla forza del vento sospinto che da una sua precisa volontà di compiere quel gesto.
Guardò verso il canneto, quello al di qua del rivo: le canne erano piegate dalla forza del vento, diventato nel frattempo impetuoso, quasi dovessero staccarsi da un momento all’altro, tanta era la furia alla quale erano soggette.
Abbiamo tanto desiderato… abbiamo tanto sofferto… urlava il vento, nelle sue orecchie e molto più dentro di sé … Che resta di noi, se non una parte di noi stesse?La nostra stessa nuova vita benedetta… Almeno loro… e il nostro sacrificio.
Il dottore spinse lo sguardo oltre, al di là del fiume, verso il canneto dai suoi frutti più esili. Strinse gli occhi, fino a sottili stringhe, e ciò che vide lo lasciò più immobile di una roccia sotto una tormenta di neve: le sottili canne, anch’esse in balìa del vento, erano quasi parallele al terreno, ma piegate dalla parte opposta a quelle del canneto superiore. Era come se soffiassero venti dagli opposti punti cardinali, e agissero sulle porzioni di terra a loro assegnati in maniera indipendente l’uno dall’altro.
Nulla le misere canne potevano; alcune volavano via con esso, strappate alla loro terra così, come fossero state dei semplici fuscelli che, sibilando, si perdevano nel buio della notte ormai sopraggiunta; altre si dimenavano, qua e là, nel goffo e vano tentativo di resistere a forze troppo grandi per essere contrastate.
E il vento urlava, potente, e molto i suoi ululati somigliavano allo straziante lamento di neonati lasciati senza né cibo né calore.
Cominciò a piovere, e grandi gocce dolci cadevano sulla terra sferzata dai venti, e grandi gocce amare solcavano il viso dell’uomo, arato da profonde rughe. Una violenta raffica gli strappò gli occhiali dal naso, che si persero a rincorrere le misere canne strappate dalla loro terra, e dentro i lamenti degli Istruminzu. Sentiva il cuore battere fin quasi a scoppiare, e nella testa il turbinio di immagini e sensazioni, che solo in apparenza poteva essere paragonato all’uragano attorno a sé che tutto scuoteva e strappava, di quelle misere ed esili canne, persino la loro stessa natura, gli bloccava i pensieri in una morsa letale.
Sottilissimi granelli di sabbia, trasportati in un vortice dal vento, gli accecarono gli occhi. Eppure…
Eppure rimasero davanti a sé, nette e distinte, le immagini delle canne forti e rigogliose pendere verso est che, fiere, resistevano alla violenza del vento; e pure nette e distinte apparivano, inspiegabilmente, anche le esili canne, decimate e inermi all’impeto del vento, piegate fino al limite dell’imminente spezzarsi all’unisono, verso ovest. E se è vero che gli occhi della mente non possono chiudersi, così come quelli della memoria, fu quello il momento nel quale egli tutto cominciò a comprendere, di sé, della sua vita, del perché avesse avuto l’impellente desiderio di ritornare al suo punto di origine dopo così tanto tempo.
Intanto i canti delle Panas, canti di dolori fisici e sofferenze dell’anima per il distacco imminente dalle loro creature, e quelli degli Istruminzu, alcuni con occhi appena abbozzati, altri già in grado di versare lacrime future che non sarebbero state versate mai, s’intrecciavano, si scioglievano, si rincorrevano come fanno le farfalle nell’idea impellente di ricongiungersi per sempre.
All’improvviso, apparve dal canneto una donna che, con andatura stanca, si diresse verso il fiume, cantando, anch’ella degli stessi canti del vento. E così cominciarono a scendere verso il fiume molte altre di quelle strane figure, dalle mura del castello, dai poderi vicini, dalle coste sinuose del fiume. Ella, per prima, chinatasi sulle crespe onde dell’acqua, cominciò a lavare.
Il dottore cadde sulle ginocchia e affondò il viso nelle mani tremanti; lo sollevò dopo un poco, sapendo in cuor suo che quella figura non poteva che essere Lidia, la madre che non aveva mai conosciuto, se non in rare, sbiadite, fotografie del tempo. Ma se anche lei era una delle Panas, che di notte andavano errando lungo il corso del fiume a lavare la tutina dei suoi bambini mai stretti al seno, questo significava che anch’ella aveva sacrificato la sua vita per lui.
E, per contro, che cosa aveva fatto, lui, nella sua vita? Guardò le forti canne in balìa del vento, e comprese che esse tentavano di resistere all’impeto dell’avverso destino con tutte le loro forze, per donare vita e regalare baci e carezze infinite ai loro frutti più preziosi. Anche le deboli canne tentavano di sopravvivere, con la forza naturale insita in ogni forma di vita volta alla sua autoconservazione. Ma che cosa potevano, loro, indifese e nude com’erano? Volavano semplicemente via, senza neanche fare rumore.
Si era sostituito al Destino; aveva richiamato a sé tutta la potenza del Vento, di accarezzare come brezza o strappare come uragano. Era un dio, capace di porre rimedio ad un errore o ad una leggerezza, persino in grado di soddisfare i desideri di chi a lui si rivolgesse, di essere libere e di decidere per sé, ma non per gli altri.
Maledisse il giorno in cui incontrò la dottoressa Dolores, quella che aveva fino al pomeriggio considerata la sua personale manna dal cielo. Ma non può esserci alcun Pane caduto dal cielo senza fede. Tutto il resto non è altro che falso nutrimento.
Lacerato dai rimorsi, come azzannato da una muta di cani rabbiosi, pianse amaramente.

– Non maledire, mai – disse una voce dietro di sé – ascolta… il vento.
E il ricordo delle tre donne che aveva trovato al suo posto, quando era arrivato in quel luogo, riaffiorò dai turbinii della sua mente. L’uomo volse lo sguardo verso di esse. Erano ancora lì, immobili nel vento come colonne, i loro occhi facce dissimili di una stessa medaglia: tre sguardi totalmente diversi tra loro ma stessi caratteri somatici.

– Il vento del Fato… – aggiunse senza trasporto alcuno Elena.

– Il vento degli uomini… – urlò minacciosa Nadia – Non hai ancora sofferto abbastanza.

– Lascialo in pace, una buona volta – replicò Rita, la più amorevole delle tre – a tutti è concessa un’altra possibilità, prima che sia troppo tardi. Che vento vuoi seguire, Edoardo? È giunto il momento di decidere. E la tua decisione sarà per sempre.

– Ascolta… il vento – ripeté ancora Elena, dall’alto della sua sapienza.
Il dottore mosse leggermente le labbra farfugliando qualcosa che si perse nei canti del vento.

– Hai scelto bene – disse Nadia, che non aveva mai smesso di lavorare al suo scialle.
E il vento, cessò.
E le canne, piegate ma non spezzate, ritornarono a svettare verso l’alto, fiere, ad indicare un cielo che di lì a poco sarebbe ritornato limpido e luminoso di stelle.

– Posso… restare in pace… – si disse Edoardo, sollevandosi a fatica sul muretto di pietre e lasciando che il suo corpo stanco vi si adagiasse piano, lento come lente stavano scomparendo ai suoi occhi le donne, ognuna se stessa, ognuna parte di sé.
Chiuse gli occhi, ma la sua mente rimase vigile ed attenta ancora per molto, molto tempo. Aveva freddo, e per questo si strinse forte le braccia attorno la petto.
Quando lo ritrovarono, tre giorni dopo, possedeva un accenno di sorriso sulle labbra livide, il volto liscio senza ruga alcuna, e uno scialle fatto a mano, a coprirlo per intero.